Questo lungo periodo di convalescenza [dell’infortunio di Franco Bomprezzi il nostro sito si è occupato nel novembre scorso, con il testo intitolato In quella brulicante «officina della salute», disponibile cliccando qui, N.d.R.] mi è molto servito per confrontarmi con me stesso, sul senso della mia esistenza, sul passato, sui ricordi, sul mio rapporto con la disabilità che mi appartiene e mi connota da quando sono nato.
Ammetto che questa volta ho avuto sinceramente paura di non riuscire a tornare alla consueta autonomia personale, faticosa e complessa, ma reale, e frutto di un lavoro minuzioso di decenni, sui movimenti, sulla postura, sul rapporto fra il mio corpo, un tutore ortopedico, la sedia a rotelle, lo spazio che mi circonda, gli ausili, la casa, l’automobile. Una paura più che comprensibile, se è vero che mi avvicino ai sessant’anni, e dunque legittimamente il mio organismo potrebbe aver rallentato nei processi di calcificazione delle ossa, e la muscolatura avrebbe tutto il diritto di non rispondere rapidamente ai miei comandi.
Ho potuto contare su un servizio assiduo, competente e affettuoso, di assistenza domiciliare, che mi ha accompagnato per mesi, consentendomi almeno le operazioni fondamentali della vita quotidiana: alzarmi, lavarmi, vestirmi. Ogni giorno, mattina e sera, perché da solo non ci sarei riuscito.
Avrei potuto adagiarmi su questa sicurezza, su questo aiuto robusto e puntuale. Ma avrei tradito me stesso, il mio modo di concepire la vita, e la sfida, mai terminata, con i miei limiti. E allora piano piano, giorno dopo giorno, ho fatto un piccolo tentativo in più per forzare i movimenti, per riprendere i gesti consueti, specialmente da quando, a metà gennaio, ho avuto la conferma che le fratture, non si sa come, si stavano saldando, senza problemi né ulteriori conseguenze invalidanti.
Ho perciò costretto chi mi aiutava, ad aiutarmi ogni giorno di meno, poco alla volta. Ossia a essermi vicino, per darmi sicurezza, con la garanzia di un possibile intervento rapido a supporto dei miei movimenti ancora incerti e impauriti. Ma poi, gradualmente, ce l’ho fatta, fino a quando, non molti giorni fa, sono riuscito a fare di nuovo tutto da me: alzarmi, lavarmi, vestirmi, uscire di casa, guidare.
C’è una contraddizione, dunque, tra la mia situazione di disabilità, reale, consistente – conseguenza di una malattia genetica delle ossa che io cerco di dimenticare, ma che pure esiste e non fa sconti -, e la concezione che oggi sembra prevalere nella comunicazione complessiva, anche politica, sui diritti delle persone disabili. Il mio comportamento, infatti, va in direzione ostinata e contraria, puntando alla normalità, all’autosufficienza, alla libertà dal bisogno. E non solo perché secondo me è giusto provarci, sempre e comunque. Ma anche perché se ognuno di noi fosse messo in condizione di dare il meglio di sé, in termini di auotodeterminazione e di indipendenza, si potrebbe davvero garantire maggiore aiuto e servizio a chi autosufficiente non è e non sarà mai.
Ma il punto difficile, forse, da capire, è proprio questo: anche le persone come me, “a metà del guado”, sono persone con disabilità. Non siamo “falsi invalidi”. Senza una rete di protezione, una serie di servizi, di ausili, di strutture riabilitative, perderemmo rapidamente la nostra autonomia, e diventeremmo, come si usa dire, persone con “handicap grave”. Ecco qual è il punto: in una situazione di welfare decrescente, di servizi ridotti all’osso, di tagli lineari decisi a livello centrale e scaricati in verticale sulle Regioni e sui Comuni, il rischio evidente e concreto è che una fascia consistente di persone che sono riuscite, faticosamente, a conquistarsi una relativa autonomia, siano ricacciate indietro, verso l’area della non autosufficienza.
Non possiamo permetterci di vanificare un percorso lungo decenni che ci ha portato verso l’Europa dei diritti, non l’Europa dei tagli.
Nel mio ritorno alla normalità, nuovamente alle prese con riunioni, convegni, attività di ogni genere, non voglio perdere la lucida consapevolezza di quanto valga questa mia ricchezza di vita, conquistata con orgoglio e con fatica, e alla quale non voglio rinunciare, continuando a lottare, il più a lungo possibile.
*Direttore responsabile di Superando.it. Il presente testo – con una serie di riadattamenti – ne riprende uno apparso anche in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog, con il titolo Elogio della normalità.
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