Negli scritti e nelle discussioni relative alle persone con disabilità che “necessitano di maggiori supporti” (“i cosiddetti gravissimi”), spesso si fa riferimento alla capacità di essere o non essere in grado di espletare autonomamente una serie di funzioni o di atti utilizzati per definire appunto tale stato di gravità estrema. In letteratura rinveniamo alcuni insiemi di tali atti:
– gli atti indispensabili al mantenimento in vita, essenzialmente inerenti il funzionamento biologico del corpo umano e relativi all’apparato cardio-respiratorio, all’alimentazione, all’idratazione e al ricambio. In parole più semplici, respirare, mangiare e bere, evacuare feci e urine;
– gli atti quotidiani della vita, divisi in: atti quotidiani della vita veri e propri (ADL = Activity Daily Living): lavarsi, vestirsi, usare il gabinetto, deambulare, essere continenti (feci e urine), alimentarsi; atti strumentali della vita (IADL = Instrumental Activities of Daily Living): capacità di usare il telefono, fare acquisti e gestire il denaro, governare la casa, cambiare la biancheria, usare mezzi di trasporto, utilizzare consapevolmente dei farmaci;
– esistono poi molte altre scale utilizzate per valutare specifici settori: linguaggio, depressione, allettamento (Karnofsky), effetti della demenza ecc.
La scelta dell’utilizzazione di uno di questi insiemi di capacità al posto di un altro è sovente effettuata in funzione delle finalità che si vogliono perseguire (scientifiche, legali, assicurative, assistenziali ecc.).
La nostra finalità è dichiaratamente “partigiana”: consapevoli, infatti, che non esiste un consenso diffuso nella definizione dei termini che delimitano, o per meglio dire, individuano il più esattamente possibile il dominio della “disabilità gravissima”, intesa come area umana meritevole dei massimi supporti esistenziali e assistenziali, perseguiamo tenacemente il tentativo di crearlo, per impresa vana che possa apparire.
Le recenti “vivaci” polemiche sorte anche sulle pagine di questo sito, attorno all’uso di una terminologia efficace, aggiornata e “politicamente corretta”, velano pudicamente l’umana tendenza a difendere il proprio “orticello” da “predatori esterni”.
La figura della persona con disabiltà in carrozzina – come archetipo dell’umana sventura – è tramontata da tempo: oggi, infatti, la mancanza di autonomia motoria senza necessità di ausili può probabilmente essere considerata come “soglia esterna” della gravità, almeno in correlazione a un ambiente non sfavorevole.
Forse – e le recenti polemiche sull’uso dei termini parrebbero confermarlo – il problema maggiore risiede in un amletico dilemma: delineare il più esattamente possibile quali sono le persone con disabilità che necessitano dei “più intensi supporti” (e naturalmente quali siano questi “più intensi supporti”), creando una distinzione tra “gravi” e “gravissimi” oppure rinunciare a tale ingrato compito e accontentarsi di individuare i servizi (e le previdenze, anche se questo termine scatenerà vivaci controversie), dedicati espressamente a chi ne ha davvero bisogno?
La seconda via sarebbe forse umanamente più giusta e più in linea ad esempio con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ma temo che sia concretamente inapplicabile, perché viziata da un’insufficiente progressione di supporti.
Tutta la discussione mi fa tornare alla mente la diatriba teologica che contrappose la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa molti e molti secoli addietro, ove la differenza di una “e”, in più o in meno, fece fallire la riunificazione delle due Chiese e contribuì non poco al crollo dell’Impero Romano d’Oriente. Abbandonando però Bisanzio al suo triste destino, torniamo a quello delle persone con disabilità, perché quello sì può essere reso meno triste, e per i “gravissimi” tre, a mio parere, sono i fattori che lo rendono possibile: la famiglia, gli ausili o le apparecchiature elettromedicali – in relazione alle specifiche necessità e alle condizioni ambientali più o meno avverse – e il personale extrafamiliare di supporto.
Sulla famiglia, che permette tout-court la sopravvivenza a queste persone e la miglior vita possibile, credo abbiamo già scritto tutto il possibile.
Sugli ausili e sulle apparecchiature elettromedicali il discorso è tecnico e di natura economica. Sovente è meno complicato e dispendioso di quanto si creda.
Sul personale di supporto extrafamiliare, infine – un badante alla Quasi amici? Magari! [ci si riferisce al filme Quasi amici, recentemente uscito in Italia, del quale si può leggere anche nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.] – il discorso è di fondi pubblici destinati all’assistenza, alla loro oculata gestione e alla professionalità e all’umanità delle persone utilizzate.
Nota dolente finale: nulla di buono lascia sperare, almeno per i tempi brevi, la recente dichiarazione del sottosegretario al Lavoro e alle Politiche Sociali Maria Cecilia Guerra, durante il convegno Cresce il welfare, cresce l’Italia [se ne legga nel nostro sito la presentazione, cliccando qui, N.d.R.]: «Nei prossimi mesi non ci saranno miliardi per il sociale». Non è una lapide tombale, ma è ugualmente un notevole peso da portare.
L’Autore del presente testo ringrazia Carlo Giacobini per averlo “illuminato”, sbrogliandogli non pochi nodi medico-legali.
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