Il termine integrazione simboleggia un grande contenitore dentro il quale troppo spesso si tende a gettare di tutto. Nell’attimo esatto in cui la nostra società, maturando e progredendo, si è resa conto che i tempi erano mutati e che la diversità non rappresentava necessariamente un male assoluto per la comunità e per gli individui, le persone si sono immediatamente rese conto del tempo perduto e delle precise responsabilità personali assunte in questo tipo e forma di emarginazione. Allora è “scattata” la corsa al recupero, si è assistito ai più o meno genuini tentativi di rimediare alle proprie negligenze, di riparare le proprie colpe. Da quel momento in poi, il termine integrazione è andato incontro a una forma di inflazione quasi senza precedenti.
Sembra essersi verificato lo stesso meccanismo sociale che ha condotto ad aggiungere la desinenza psico- ad ogni occasione possibile. Anche in questo caso, infatti, la società, le persone, sembrano essersi ricordate dell’altro aspetto della persona umana, evidentemente fatta anche di emozioni, desideri e paure. Per una sorta di recupero del tempo perduto, ecco allora scattare l’operazione psico che, come un’onda ha travolto ogni sfera e ogni forma di competenza umana: psico-logico, psico-sociale, psico-pedagogia, psico-somatico, psico-motorio. E potremmo procedere all’infinito.
Fatti salvi, dunque, i veri casi in cui al termine linguistico si è realmente accompagnato un percorso e un progetto fatto di contenuti e risultati sinceri e concreti, in tutte le altre situazioni, spesso si è semplicemente trattato di dar “fiato alle trombe” e celebrare un concetto che non di rado è rimasto un contenitore vuoto, un termine spurio, sghembo, con caratteristiche catartiche e salvifiche, finalizzate maggiormente a “sciacquare le coscienze”, piuttosto che a perseguire la reale soluzione del problema. Ma non è di questo che mi interessa parlare e non cederò neppure alla tentazione (per la verità forte) di ragionare intorno a concetti come integrazione e profitto, sia in termini politici che economici.
Ragionando sul termine stesso, parlare di integrazione in italiano significa completare, aggiungere. Sarebbe come voler saldare, incollare la persona con disabilità a un sistema intero (come si farebbe per un coccio in un vaso), come se questa forma rispondesse a un preciso bisogno di unificare, aggiustare, armonizzare un’immagine incompleta, un frammento a un’unità.
Una visione e un’interpretazione “selvaggia” di questo termine, alle volte sembra autorizzare una certa categoria di professionisti a ricercare questo risultato, facendo pagare alla persona colpita da handicap un prezzo salatissimo. Sono quei casi in cui per raggiungere l’obiettivo, si costringe indirettamente la persona a rinunciare ai propri sogni, alle proprie aspirazioni, barattando le sue emozioni e le sue illusioni con una sorta di accettazione sociale, intrisa di compromessi più o meno velati. Questi sono i casi in cui integrare fa rima con uniformare, conformare, modellare, standardizzare, spersonalizzare.
Fromm (1) si chiederebbe se bisogna considerare sana una persona integrata in una società malata, oppure malata una che in questo tipo di società non si vuole uniformare.
Una persona che rinuncia a se stessa per essere riconosciuta dalla collettività, per soddisfare un lecito, legittimo e sacrosanto bisogno di appartenenza, non è una persona “integrata”, è una persona mimetizzata, programmata, inibita, sicuramente spaventata e pronta a sottomettersi per paura di essere allontanata, esclusa. Questa persona non sarà mai del tutto libera, ma svilupperà forme alternative di insicurezza e di dipendenza che non le permetteranno di vivere una vita serena e autentica. In questi casi, bisognerebbe parlare di adeguamento, mimetismo, simbiosi, non certo di individualità e di libertà.
Non stiamo “integrando” secondo valori di sviluppo e appagamento della personalità, ma al contrario, stiamo addestrando una persona a sacrificare il suo essere individuo al “Dio della massificazione”, “dell’omologazione”. Il processo che porta alla reale integrazione è lungo, complesso e richiede l’impegno di tutta la collettività e non solo della persona colpita da disabilità. E forse il termine stesso sta diventando obsoleto.
Utilizzando i concetti di Piaget (2) per altri fini, possiamo dire che accanto all’assimilazione della persona all’interno di un gruppo, deve necessariamente corrispondere l’accomodamento dello stesso gruppo e non solamente della persona con disabilità. Non basta avvicinare un bambino colpito da minorazione a un altro “normale” per avere e ottenere integrazione, almeno quanto non basta avvicinare tutti gli ingredienti per avere pronta una torta. Il processo di integrazione deve necessariamente apportare importanti e profonde modificazioni al tessuto sociale entro il quale si compie, e non ridursi alla semplice “aggiunta” di un tassello in un ingranaggio. È un po’ come la differenza che corre tra il concetto di informazione e quello di formazione.
In questi termini, un percorso di integrazione semplicistico rischia di spersonalizzare piuttosto che restituire dignità, costringe a sacrificare se stessi, se questo appare l’unico modo di essere riconosciuti, accettati, integrati.
Ma dimentichiamoci per un attimo il concetto di integrazione inteso come processo che conduce l’individuo al pieno inserimento nel gruppo, senza dover rinunciare alla propria individualità di essere umano. Fingiamo che questo obiettivo sia stato completamente e correttamente raggiunto, e analizziamo i contenuti e le finalità dell’integrazione da un altro punto di vista, molto più vicino alle nostre competenze di operatori del movimento umano.
Quale sarà il nostro ruolo di professionisti del movimento, della motricità, in termini di integrazione? Qual è il contributo concreto che l’attività in piscina può apportare alla causa e alla lotta per l’integrazione delle persone colpite da deficit visivo? Cosa realmente rende “integrante” un percorso psicomotorio?
Ho trattato questo argomento in conclusione non perché attribuisca ad esso una minore importanza, al contrario. Quasi mai si sottolinea l’aspetto dell’individuo e delle sue necessità a partire dal corpo, dalle emozioni, dalle reali esigenze legate profondamente e intimamente alla sua individualità; e abbiamo visto come spesso si semplifichi, intendendo per integrazione una semplice operazione di “adeguamento” e “conformismo sociale”.
Anche nello sport – benché tanto celebrato a parole – questa integrazione tra bisogni dell’Io e quelli dell’ES (come direbbe Freud) (3), spesso non trova alcun riconoscimento sul piano della praticità. Ovviamente questo limite va cercato nel tipo di società in cui siamo immersi, una società narcisista, che ha fatto della scissione tra immagine e sensazione la sua ragione di produrre, consumare più che di essere.
Allora, per noi, l’integrazione del bambino non vedente in piscina non si limiterà solamente a quella di natura sociale (che per altro abbiamo considerato ed enfatizzato da subito), ma la completeremo, la svilupperemo, la analizzeremo a partire dal corpo, dalle emozioni, dall’investimento di tutte le componenti della personalità, tentando di raggiungere un risultato che rappresenta il vero valore aggiunto del nostro percorso e del nostro intervento a partire dall’acquaticità: ridurre quanto più possibile gli effetti di quello che possiamo definire il “narcisismo motorio”.
Integrare nella classe, nel gruppo, nella società, ecco l’unico obiettivo considerato importante. Ma è davvero così? Nel momento in cui il bambino è ben inserito all’interno della classe e della società, possiamo considerare raggiunto l’obiettivo? Come pensiamo che una qualsiasi persona possa vivere bene in qualsiasi società, in qualsiasi classe, se prima di tutto non abita piacevolmente e integralmente il suo stesso corpo? Non è forse il corpo la nostra “prima dimora”?
Oramai abbiamo sviluppato un concetto di integrazione definibile come “esterno”, “estrinseco”, che prende in considerazione solamente gli aspetti visibili e tangibili del processo. Ma accanto a questo aspetto dell’integrazione, ne esiste un altro, meno tangibile, “interno”, “intrinseco”, che non è assolutamente meno importante.
Questo aspetto “profondo” dell’integrazione spesso non incontra grandi favori e attenzioni da parte degli operatori, forse a causa della sua natura difficilmente quantificabile e misurabile, o forse per il fatto che presuppone un maggiore impegno sul piano educativo. Trascurandolo, però, si rischia di integrare all’esterno una persona dis-integrata internamente, realizzando una sorta di integrazione a metà.
Contrariamente a quanto si pensa, il narcisista non si vuole bene; esso nega qualsiasi emozione, qualsiasi sentimento che lo allontana dall’immagine che vuole trasmettere di sé. Lui non ascolta, non riconosce e non progetta a partire dal Sé, ma dall’Io, dalla mente. Lowen (4) disse che se si considera il corpo come strumento della mente, l’attività del corpo sarà basata su immagini e non su emozioni. Siamo abituati alla logica del Cogito, ergo sum (5), quando invece dovremmo aiutare il bambino minorato della vista a ragionare in termini di Sum, ergo cogito (6).
Allora la minorazione visiva rischia di condurre la persona colpita in questa “prigione” dove esiste una separazione, una scissione quasi incolmabile tra pensiero e sensazione, dove si perde il contatto diretto con il proprio corpo, disinvestendo sui sentimenti, che vengono soppressi perché cristallizzati e calcificati in tensioni muscolari, paure, ansia e mancanza di “emozionalità”.
La sensorialità e l’emotività della persona con minorazione visiva spesso implode; le contrazioni muscolari sovente sono messe al servizio dell’inibizione del movimento, piuttosto che alla sua esplosione, alla sua realizzazione appagante e finalizzata. Il bambino non sente emozioni perché non si muove, e non si muove perché non sente emozioni. In piscina, rompendo questo circolo negativo, lo aiuteremo ad armonizzare il movimento alla sensazione, a percepire e a rappresentare emotivamente il suo corpo, gli restituiremo il sacrosanto diritto di giocare, di muoversi, di riconoscersi, di sperimentarsi. Creando un collegamento tra “testa e pancia”, un ponte tra movimento ed emozione, abbatteremo definitivamente l’ultimo muro che lo separa realmente dall’essere come tutti gli altri bambini. Gli regaleremo in questo modo, la gioia di un corpo percepito, vissuto, rappresentato e non solamente subìto.
Restituire al bambino un corpo e una corporeità rapita, tenuta in ostaggio e tiranneggiata dagli effetti della minorazione, per quanto mi riguarda rappresenta non un obiettivo, bensì l’obiettivo del nostro preziosissimo e ineguagliabile intervento attraverso l’acquaticità. Gli operatori sportivi che vedono nell’apprendimento delle tecniche natatorie e dei gesti specifici il fine ultimo della loro professionalità, del loro intervento educativo, somigliano molto a coloro che guardano il dito, mentre si stanno indicando numerose altre vie, diversi altri importantissimi traguardi. È questo il mio personale concetto di integrazione.
Note:
(1) Erich Fromm (Francoforte sul Meno, 1900-Locarno, 1980), psicoanalista e sociologo tedesco, il cui contributo alla sociologia viene collocato nell’ambito del cosiddetto “Umanesimo Normativo”.
(2) Jean Piaget (Neuchâtel, 1896-Ginevra, 1980), psicologo, biologo, pedagogista e filosofo svizzero, considerato il fondatore dell’Epistemologia Genetica, ovvero dello studio sperimentale delle strutture e dei processi cognitivi legati alla costruzione della conoscenza nel corso dello sviluppo. Si dedicò molto anche alla Psicologia dello Sviluppo.
(3) Nell’elaborazione teorica di Sigmund Freud, l’Io è la parte emersa, cosciente, di una personalità, l’ES il subconscio istintivo.
(4) Alexander Lowen (New York, 1910-New Canaan, 2008), psicoterapeuta, medico e psichiatra statunitense, ha messo a punto il particolare approccio noto come Analisi Bioenergetica.
(5) «Penso, dunque sono», ovvero la celebre espressione con cui il filosofo e matematico francese Cartesio espresse la certezza indubitabile che l’uomo ha di se stesso in quanto soggetto pensante.
(6) «Sono, dunque penso».
*Presidente dell’Associazione Il Raglio di Cagliari, idrochinesiologo e istruttore IRIFOR (Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione) di nuoto e motricità per bambini non vedenti. Questo intervento è stato presentato con il titolo Acquaticità, motricità e minorazione visiva: il nuoto come strumento educativo, preventivo, integrativo, durante il seminario-convegno organizzato il 12 e 13 maggio 2011 a Padova dalla Fondazione Robert Hollman, denominato Attività motorie e disabilità visiva: situazione attuale e prospettive future.
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