Chi scrive ha avuto la fortuna e l’onore di poter incontrare personalmente il grande poeta, sceneggiatore e scrittore italiano Tonino Guerra, scomparso recentemente, durante un’indimenticabile giornata del ’97, passata a Pennabilli, “perla della Val Marecchia”, incastonata tra Romagna, Marche e Toscana, a due passi dalla Repubblica di San Marino, località in provincia di Pesaro-Urbino, che Guerra aveva scelto e “adottato” da molti anni, realizzandovi alcune sue splendide idee, tra cui i due “luoghi del tempo” denominati “L’orto dei frutti dimenticati” e “Il santuario dei pensieri”.
L’incontro aveva coinvolto anche Stefano Andreoli, collaboratore di «DM», giornale nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e avrebbe dovuto riguardare soprattutto il cinema, il grande cinema scritto dall'”Omero romagnolo” (tra le altre, le sceneggiature di film come Amarcord, Ginger e Fred e E la nave va di Fellini, L’avventura, Blow up e Zabriskie Point di Antonioni, Matrimonio all’italiana e I girasoli di De Sica, Tre fratelli di Rosi, Nostalghia di Tarkovskij, solo per citare alcuni tra i titoli più celebri). Invece si parlò di altro, di molto altro.
Per rendere dunque omaggio a questa grande figura della cultura italiana, ben volentieri riproponiamo il racconto di quella giornata passata a Pennabilli, per come ne riferì Stefano Andreoli, all’interno del giornale della UILDM. (Stefano Borgato)
«Ulisse: uno che manca da dieci anni e torna a casa, questo per me è un film… Uno che torna in un paese e deve fare il confronto fra quello che ha nella mente e quello che sta vedendo…».
Pennabilli, non distante da San Marino, il paese in cui abita Tonino Guerra e nel quale si scopre man mano che lo si visita la sua presenza, ci è apparso il luogo meno adatto per ambientare un film sul “ritorno” di un Ulisse “senza qualità”, che non ritrova più ciò che ha lasciato molti anni prima. Perché, si potrebbe rispondere, a Pennabilli tutto è rimasto com’era: la bottega dell’artigiano, il bar, la chiesa, la trattoria “dalla Peppa”…
Ma non è questo il motivo: il tempo non si è fermato, Pennabilli è un comune tutt’altro che cristallizzato dal punto di vista economico e culturale, nel quale si organizzano, ad esempio, importanti corsi di restauro, o che ospita, a pochi chilometri, il Museo di Informatica e Storia del Calcolo.
Il motivo è un altro. Chi vede per la prima volta questo paese ha la sensazione di vivere in una dimensione cronologica diversa, più che un ritorno a “strapaese”, un balzo fiabesco nell'”anticausalità” di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Ci sono tre “luoghi del tempo” a Pennabilli, la “Via delle meridiane, “L’orto dei frutti dimenticati” e “Il santuario dei pensieri” (gli ultimi due ideati e in parte realizzati dallo stesso Guerra), che costituiscono un itinerario virtualmente circolare, senza inizio e senza fine, lungo il quale il tempo viene “mostrato” dal sole, “ripresentato” dalla memoria, “recuperato” dalla meditazione. Per questo riesce difficile pensare a Pennabilli come all’Itaca di un comune emigrante!
La caratteristica del paese sono le meridiane: ne notiamo subito una sulla facciata di una casa, vicinissima alla casa di Tonino Guerra, somigliante ad un quadro di Salvador Dalì; altre due (una “umana” e un’altra con i profili di Federico Fellini e Giulietta Masina) le abbiamo scoperte nell'”Orto dei frutti dimenticati”, un giardino in cui il limoncello, il pero cotogno, il fico verdino, il nespolo della goccia crescono tra le sculture.
Oltre l’Arco delle Favole («dove per breve tempo puoi perdere la memoria per ritrovare il giorno piu bello della tua vita»), due lumache campeggiano nel “labirinto dell’anima”; e lumache sono scolpite anche sul portale arancione dedicato al regista russo Tarkovskij, con il quale Tonino Guerra ha collaborato nell’83 alla realizzazione di Nostalghia, un film che come altri sceneggiati dal poeta romagnolo, vede il personaggio del “pazzo” tra i protagonisti della vicenda.
«Il pazzo è una forma poetica, è un’esagerazione della parola», ci ha raccontato Guerra. «Non è che io ho detto: “Senti Tarkovskij, adesso mettiamo il pazzo”, è nell’aria, tutti gli intellettuali di una certa raffinatezza, di una certa complicazione, non possono non guardare con simpatia al “pazzo”, perché ha delle esplosioni come le può avere un infante, può venir fuori con delle cose che non t’aspetti e che ti possono dare una grande emozione…».
E riferendosi allo “zio matto” (Ciccio Ingrassia) di Amarcord rivela che «è stato veramente un pazzo a gridare a Torino: “Voglio una donna!”».
Dall'”Orto dei frutti dimenticati” si vede la casa-arca di Tonino Guerra, dietro alla quale vi è “Il santuario dei pensieri”, formato da sette sculture che nella semplicità delle forme ricordano i menhir preistorici e al quale si accede attraverso un sentiero “magico”, un piccolo camminamento costellato di legni intagliati (a ricordare i totem dei pellerossa), ognuno con una scritta di creazione del poeta romagnolo: «Anch’io potrei diventare noioso se non lo fossi già», «C’è chi non sa dove andare e sta correndo per andarci subito», «Non è vero che uno più uno fa sempre due. Se sommi due gocce d’acqua il risultato è una goccia più grande», «In autunno il rumore di una foglia che cade è assordante perché con lei precipita un anno», per citarne solo alcune.
Il nostro arrivo interrompe la lettura mattutina dei quotidiani con un amico del paese: «Cominciamo col dire una cosa molto semplice: io nella vita ho sempre voluto fare il poeta; quindi fare lo sceneggiatore voleva dire in un certo senso adattarmi ad un mestiere. Allora credo dentro di me – evidentemente ci ho sempre creduto – di avere la capacità per poter avvicinarmi come il camaleonte, e a seconda della pianta alla quale sono vicino prendo il colore di quella pianta… così capita davanti a un regista. Sono loro, Antonioni, Fellini, Tarkovskij, Angelopoulos, semplicemente che mi cercano, credono di trovare in una parte di me o in me, quello che fa comodo a loro…».
Sin dalle prime battute capiamo che Tonino Guerra non ama le interviste; risponde frettolosamente e un po’ imbarazzato alle schematiche domande che gli poniamo sul “mestiere” dello sceneggiatore: «Un regista che si chiama Aglauco Casadio voleva fare un film in Romagna e pensò di chiedere aiuto a uno che viveva a Sant’Arcangelo e che aveva scritto delle poesie in dialetto romagnolo, quindi molto vicino al suo mondo, essendo anche lui di origine romagnola. Il film ebbe per titolo Un ettaro di cielo [1957, N.d.A.], che è andato molto bene, ha vinto il premio di qualità. Io in quel periodo facevo il professore e prendevo trentanovemila lire al mese e siccome me ne offrivano trecentomila per andare a Roma, sono andato a Roma. Dopo il primo momento ho fatto dieci anni di fame e poi verso i quarantacinque anni le cose sono cambiate… I grandi film sono fatti dai registi e loro sono i responsabili. Accanto ai registi ci sono dei collaboratori di qualità. Quindi la domanda da farmi potrebbe essere: come mai Fellini aveva questo debole [il personaggio del “matto”] e lei lo ha aiutato nella creazione di questo personaggio? Se invece parliamo delle commedie, fatte di molto dialogo, allora si potrebbe persino pensare che l’autore è lo sceneggiatore. Ci sono dei film musicali dove alcune volte si potrebbe persino pensare che è il musicista a dare l’impronta a tutto il film… Ma non stiamo parlando di grandi film d’autore…».
«Qual è il “cinema poetico” che le sarebbe piaciuto fare e che non ha fatto?», proseguiamo credendo di aver trovato l’argomento giusto: «Sono le cose che scrivo… la storia di un poeta, la storia di una poesia, l’incontro con un paese abbandonato… Sono cose minime, dovrebbe essere un film povero… Io mi dico questo: se ho dei godimenti, molto semplici ma profondi – quando per esempio, in un paese abbandonato, vedo degli interni con gli oggetti lasciati lì – perché queste cose non si possono trasmettere a qualcuno? Certo poi al cinema non ci va nessuno, ma questo non è il mio problema! Questo è “cinema poetico”, cioè non all’americana, non me ne frega niente dell’azione, non me ne frega niente delle grandi trame…».
Da scrittore che come diceva Elio Vittorini, «fa le poesie con le mani», Guerra non si trova a proprio agio a “teorizzare” su di sé.
Congedandoci chiede notizie di Padova e ricorda la madre analfabeta nella città veneta in occasione di una visita di Vittorio Emanuele III alla Basilica di Sant’Antonio: «Lei era accanto al re mentre entrava in chiesa e siccome il re salutava sempre con la mano e poi l’abbassava toccando le sottane di mia madre, lei gli diceva: “Mo stai buono con quella manina!”».
Alla fine non si può non accostare questo grande personaggio agli oggetti di cui egli stesso parla, a proposito di un’altra sua iniziativa, “I mobilacci di Pennabilli”.
«I miei mobilacci sono dei “mobili non pratici” cioè delle presenze che hanno un carattere forte e non portati a un’obbedienza totale. Davanti a loro devi in qualche modo cercare di scoprirli e trovare la loro utilità».
*Servizio realizzato per il numero 126 di «DM» (maggio 1997), giornale nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo L’orto dei frutti dimenticati e qui ripreso per gentile concessione.
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