Disabile, invalido, handicappato, non autosufficiente: sono solo le più frequenti definizioni che incontriamo nella corposa e disorganica normativa italiana che tratta di tali aspetti. Dietro la terminologia e il linguaggio – assai poco coerenti nel tempo e nei contesti – c’è sempre un beneficio, una provvidenza, un’agevolazione, l’accesso a un servizio, che per essere ottenuti richiedono uno “status”, uno specifico iter, un accertamento e un “soggetto preposto”, che solitamente è un medico o una commissione prevalentemente sanitaria.
Inoltre, per l’accesso al sistema di servizi e prestazioni, in Italia non è quasi mai sufficiente la verbalizzazione di uno “stato invalidante”, ma sono richiesti anche altri requisiti: ora di età, ora di limiti reddituali, ora in base ad altri criteri soggettivi o materiali. All’accertamento sanitario si aggiunge, quindi, anche quello più schiettamente amministrativo.
Ultimo, ma non ultimo: esiste in Italia una proliferazione di momenti accertativi, derivante proprio da una frammentaria molteplicità di definizioni, criteri, eccezioni, che mutano a seconda dei benefìci attivabili, anziché viceversa, mentre è ancora estremamente debole e confinata nell’ambito della sperimentazione la valutazione connessa alla presa in carico, alla programmazione individualizzata dei servizi, ai sostegni alla piena partecipazione sociale.
Ma dopo l’approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità [ratificata in Italia con la Legge 18/09, N.d.R.], questa impostazione è ancora sostenibile? Le attuali definizioni e i percorsi di riconoscimento degli stati invalidanti sono in linea con le definizioni di disabilità previste dalla Convenzione? Qual è la distanza fra ciò che accade in Italia e ciò che indica la carta internazionale, per altro ratificata dal nostro Paese?
La disabilità nel senso comune
Il comune linguaggio italiano tradisce una concezione della disabilità molto distante dall’accezione attribuita invece dalla Convenzione ONU. Disabilità viene infatti comunemente intesa come sinonimo di menomazione, cioè un fatto accidentale che afferisce al fisico, alla mente, ai sensi. È uno scartamento più o meno grave dalla media della normalità, valutabile, sbrigativamente, con logiche sanitarie. Essa riguarda e risiede esclusivamente nella persona che ne è affetta (non usiamo questo termine a caso). Gran parte del corpus normativo ricalca quindi – come è ovvio che sia – questa accezione, che assume pertanto la forma del paradigma, cioè del modello interpretativo della realtà.
La disabilità nelle norme italiane
Le disposizioni italiane in materia sono potenzialmente ancorate a due articoli della Costituzione Italiana (1948): il 3 e il 38.
L’articolo 3 – ricalcando la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (ONU, 1948) -, sancisce che tutti i Cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione alcuna, e che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Lo stesso articolo vieta la distinzione «di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
Non c’è alcuna espressa indicazione alla disabilità (comunque intesa), anche se è possibile riconoscerla nelle ultime due parole e anche se la memoria storica ci aiuta a ricordare che – durante la discussione all’Assemblea Costituente – tra le condizioni personali e sociali veniva considerata solo la situazione dei ciechi.
Complessivamente, il terzo è un articolo di forte affermazione di diritti civili di ognuno, costantemente richiamato dalla Suprema Corte Italiana. Di fatto, però, gran parte della produzione normativa in materia di “disabilità” riprende l’articolo 38, ove si prevede che «ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale». Assistenza quasi compensativa, quindi, una volta che siano state dimostrate l’indigenza e l’inabilità (non la capacità di lavorare).
Poi si vedrà a quali articolazioni e gemmazioni ha portato concretamente questa impostazione nella produzione normativa italiana, nelle politiche, e nella prassi (servizi), ma queste, come è facile intuire, sono fortemente connotate dall’apprezzamento dello stato economico e di “incapacità lavorativa” del singolo, più che dalla ricerca del reale diritto di cittadinanza, richiamato dall’articolo 3.
La disabilità secondo l’ONU
Le definizioni di disabilità (Preambolo, lettera e) e di persona con disabilità (articolo 1, comma 2), sono l’espressione dei princìpi fondamentali su cui si basa la Convenzione ONU. Derivano pertanto dall’affermazione dei diritti umani delle persone, del diritto all’inclusione e della partecipazione sociale in condizioni di pari opportunità rispetto agli altri. Vi si aggiunga il conseguente divieto ad ogni forma di discriminazione e di segregazione e da ultimo si sottolineino tutti gli intenti legati all’abilitazione, alla libertà di scelta, alla ricerca di accomodamenti ragionevoli in caso di palesi condizioni di discriminazione.
In sintesi: le persone vanno messe nella condizione di vivere, scegliere, partecipare, rimuovendo gli ostacoli che impediscono loro di farlo e promuovendo soluzioni che ne consentano la partecipazione al pari degli altri.
È in questo contesto logico – prima ancora che etico – che ci si muove quando si definisce la disabilità come «un concetto in evoluzione» e come «risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».
La disabilità non è un concetto imperituro che possa essere fotografato con un’immagine che non ha scadenza. Essendo il risultato di un’interazione, e potendo modificarsi uno degli elementi di tale “scambio”, la disabilità che conosciamo oggi potrebbe essere molto diversa da quella di domani (peculiarità diverse, nuove forme di esclusione, nuove forme di partecipazione…).
Questa rimarcata evoluzione non ha solo un significato storico e sociologico – cioè riguardante l’evoluzione di un’intera società -, ma è valida anche rispetto ad ogni persona le cui condizioni possono modificarsi. La persona può seguire percorsi di capacitazione o involversi, suo malgrado, in situazioni segreganti o discriminanti, a causa di nuove barriere o ulteriori ostacoli. La disabilità cambia assieme all’interazione che la genera. Riconoscere e saper rilevare questa dinamicità permette anche di valutare l’efficacia delle politiche generali e dei supporti alle persone.
L’interazione è fra le persone che hanno una menomazione e le barriere che queste incontrano. Le barriere sono comportamentali: atteggiamenti, luoghi comuni, pregiudizi, prassi, omissioni. Le barriere sono ambientali: luoghi, servizi, prestazioni inaccessibili; assenza di progettazione per tutti; assenza di politiche inclusive… Non esiste disabilità senza barriere. Senza barriere e ostacoli ci sono “solo” persone con menomazione. Inoltre, questa interazione negativa assume significato perché impedisce alle persone con menomazione «la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». Quindi, risultano incluse nelle interazioni negative anche le discriminazioni, cioè i trattamenti differenziati (diseguali) senza giustificazione.
In altre parole, viene riconosciuto che la rimozione o riduzione della disabilità è una responsabilità (e dovere) istituzionale e della società nel suo complesso. Infatti, le barriere, gli ostacoli e le condizioni di discriminazione sono creati in gran parte dalla società, che si è dimenticata che esistono persone che si muovono su sedia a rotelle, si orientano con un cane guida, comunicano senza l’uso della voce, si relazionano a cuore aperto.
L’articolo 5 della Convenzione ONU impone agli Stati di proibire qualsiasi discriminazione e, nel caso venga riconosciuta da un tribunale, obbliga gli stessi Stati a mettere in atto un “accomodamento ragionevole” che rimuova la condizione di discriminazione e diseguaglianza, ne impedisca il ripetersi e, nel caso, risarcisca il discriminato dai danni materiali e morali subiti.
Tenendo conto dell’«universalità, indivisibilità, interdipendenza e interrelazione» di tutti i diritti umani, ogni volta che si impedisce il pieno godimento di uno di questi diritti, vengono ad essere colpiti in una catena negativa anche tutti gli altri diritti.
Qui sta tutto il peso specifico della Convenzione: rendere un diritto effettivo di tutti e in tutti gli ambiti della vita ciò che oggi viene faticosamente riconosciuto solo come legittima aspirazione di qualcuno e solo in alcuni ambiti della vita.
Le persone con disabilità
Dello stesso tenore è la definizione di persona con disabilità: «Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
Prima sintesi: per rendere la persona con menomazione una persona con disabilità, è necessario che una serie di barriere ostacolino la sua piena ed effettiva partecipazione. A generare la disabilità, quindi, non è tanto la menomazione, ma gli ostacoli che la persona incontra, le scelte e i percorsi che può o meno assumere durante la sua vita, a causa di barriere che altri hanno posto.
Si tratta di una definizione profondamente “rivoluzionaria” rispetto a quella assunta dalla normativa italiana (pre)vigente alla Convenzione: viene infatti riaffermata la responsabilità di fondo delle politiche di ciascun Paese e dei servizi che questo attiva e mantiene per favorire la piena inclusione e le pari opportunità senza discriminazioni basate sulla disabilità.
Tabella 1. Disabilità: Italia e ONU
Costituzione Italiana |
Convenzione ONU |
Persone: inabili al lavoro e sprovviste dei mezzi necessari per vivere |
Persone: con durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali, che incontrano barriere comportamentali e ambientali |
Diritti: mantenimento e assistenza sociale; pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge |
Diritti: piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri. |
Società: rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei Cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese |
Società: promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità. |
La valutazione della disabilità secondo l’ONU
La Convenzione ONU non propone alcun riferimento ai processi di valutazione della menomazione, che per altro definisce come di lunga durata (il che è frutto di compromesso in sede di elaborazione). L’interesse, piuttosto, è sulle cause della disabilità e quindi sulle barriere, sulle politiche, sui servizi, sui fattori contestuali e ambientali.
Dalla Convenzione si comprende quanto sia più rilevante intervenire sulle cause di esclusione, discriminazione, assenza di pari opportunità, anziché commisurare, soppesare, graduare le menomazioni o il grado di dipendenza assistenziale.
Interessano di più i diritti umani, ma interessano anche i servizi e i supporti che ne consentano la concreta applicazione, oltre che favorire adeguati livelli di vita e protezione sociale, di sostegno delle spese collegate alle disabilità, di riduzione della povertà, di aiuto economico o forme di presa in carico, di abilitazione, di formazione.
La valutazione della “disabilità” in Italia
Al momento non esiste in Italia alcuna prassi operativa o procedimento amministrativo di accertamento o valutazione che sia riconducibile al concetto di disabilità espresso dalla Convenzione ONU. La pur ridondante gamma di momenti accertativi, la ripetizione copiosa di visite di accertamento e di controllo non producono le informazioni presupposte dalla Convenzione. E il gap fra quanto richiesto dall’ONU e le modalità adottate in Italia è diverso a seconda delle tipologie di valutazione.
In Italia, infatti, le valutazioni sono strettamente connesse ai benefìci ad esse correlate: la loro funzione è quella di accertare una “soglia” oltre la quale si accede a una provvidenza o a un intervento assistenziale. Generano normalmente la definizione di uno status che consente di accedere a servizi, prestazioni, benefìci lavorativi, senza tuttavia descrivere in modo circoscritto le reali necessità di supporto, tanto che spesso i servizi sono “costretti” a effettuare proprie ulteriori valutazioni, per meglio tarare gli interventi di presa in carico o di progettazione individualizzata (laddove esista).
Ogni momento valutativo ha propri indicatori fra loro non comparabili e un linguaggio non omogeneo, non solo e non tanto con la Convenzione ONU, ma fra gli stessi diversi momenti valutativi.
Va annotato – per completezza – che nel 2001 la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha emanato un Atto di Indirizzo in materia di prestazioni socio-sanitarie, prevedendo che l’assistenza socio-sanitaria venga prestata «alle persone che presentano bisogni di salute che richiedono prestazioni sanitarie ed azioni di protezione sociale, anche di lungo periodo, sulla base di progetti personalizzati redatti sulla scorta di valutazioni multidimensionali».
Le prestazioni socio-sanitarie dovrebbero essere definite tenendo conto della natura del bisogno, della complessità e dell’intensità dell’intervento assistenziale, nonché della sua durata. Attenzione: il riferimento è al “bisogno” e non al “diritto”, come invece sancito dalla Convenzione ONU.
La natura del bisogno – secondo quell’Atto di Indirizzo, dovrebbe tenere conto delle funzioni psicofisiche; della natura delle attività della persona e delle relative limitazioni; delle modalità di partecipazione alla vita sociale; dei fattori di contesto ambientale e familiare che incidono nella risposta al bisogno e nel suo superamento. Le Regioni avrebbero dovuto disciplinare le modalità e i criteri di definizione dei progetti assistenziali personalizzati, per i quali, tuttavia, è assente ogni riferimento al coinvolgimento della persona nelle decisioni che la riguardano.
E tuttavia, queste carenti e generiche indicazioni di indirizzo hanno prodotto esiti molto diversificati territorialmente:
– sono rimaste in larga misura lettera morta;
– sono stati adottati criteri di mera valutazione della non autosufficienza;
– non sono stati attuati che marginalmente e sperimentalmente i progetti individualizzati;
– la considerazione dell’ambiente e della partecipazione è stata lasciata priva di modalità valutative ed estese
Tabella 2. Valutazione: Italia e ONU
Italia |
Convenzione ONU |
La valutazione della disabilità: volta a individuare i presupposti per l’accesso a benefìci, prestazioni, agevolazioni |
La valutazione della disabilità: volta ad individuare gli elementi causa di esclusione e discriminazione |
Persona: si rilevano principalmente le menomazioni, le affezioni, le patologie, che sono causa di una non specificata inabilità generica al lavoro |
Persona: ha maggiore rilevanza l’interazione con ostacoli e barriere che impediscono la fruizione dei diritti umani e la piena partecipazione alla vita della società su base di uguaglianza |
Angolo prospettico: fortemente sanitario e, in alcuni casi, di valutazione del carico assistenziale. Orientato alla concessione o alla negazione di benefìci |
Angolo prospettico: biologico, ma anche psicologico e fortemente sociale. Orientato al rispetto dei diritti umani |
Un tentativo di analisi
Prendiamo ora in esame i principali momenti di valutazione adottati nel nostro Paese, tentando di comprendere quale sia la distanza rispetto ai concetti espressi dalla Convenzione ONU. E proprio partendo dal dettato di quest’ultima, assumiamo, per ciascun momento valutativo, la seguente griglia di analisi e di comparazione.
– Qual è la capacità di definire la menomazione?
– Qual è la capacità di definire l’interazione con le barriere (quali barriere)?
– Qual è la capacità di individuare l’impedimento alla partecipazione/pari opportunità?
– Qual è la capacità di rilevare l’evoluzione della menomazione e/o degli altri aspetti di interazione?
A questa griglia aggiungiamo le criticità di ciascun momento valutativo, in quanto le stesse prassi possono costituire una barriera o un ostacolo all’accesso di altri servizi, se non addirittura a diritti.
L’invalidità civile
La definizione di invalidità civile è piuttosto datata (1971, con marginali modifiche nel 1988 [Legge 118/71 e anche Legge 381/70 per i sordi e Leggi 66/62 e 382/70 per i non vedenti; per il 1988 si veda alla cronologia legislativa di quell’anno, cliccando qui, N.d.R.]). Secondo un’indicazione ancora vigente, sono «mutilati ed invalidi civili i cittadini affetti da minorazioni congenite o acquisite, anche a carattere progressivo, compresi gli irregolari psichici per oligofrenie di carattere organico o dismetabolico, insufficienze mentali derivanti da difetti sensoriali e funzionali che abbiano subito una riduzione permanente della capacità lavorativa non inferiore a un terzo o, se minori di anni 18, che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età. Ai soli fini dell’assistenza socio-sanitaria e della concessione dell’indennità di accompagnamento, si considerano mutilati ed invalidi i soggetti ultrasessantacinquenni che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro età».
Al di là dei linguaggi e dei termini vetusti, il riferimento cardine – come si potrà notare – è alla riduzione della capacità lavorativa. La valutazione avviene usando delle Tabelle (le ultime approvate nel 1992, con il Decreto Ministeriale del 5 febbraio di quell’anno), che indicano per ciascuna «patologia, affezione, menomazione» un punteggio fisso o variabile in range di 10 punti. Il presupposto “scientifico” di collegare una patologia a una riduzione della capacità lavorativa (che peraltro è indicata come generica) è piuttosto labile e frutto di successivi compromessi.
Ancora più incerti sono i contorni della capacità di svolgere gli atti quotidiani della vita, per la valutazione dei quali mai sono state fornite indicazioni metodologiche.
Altri percorsi valutativi sono previsti per le invalidità di tipo sensoriale (persone non vedenti e sorde), ma con la medesima logica.
Le minorazioni civili (invalidità, cecità, sordità) sono accertate da Commissioni operanti presso le Aziende Sanitarie Locali, integrate da un medico dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS). Ciascun verbale viene poi verificato dall’INPS e convalidato o annullato dopo propri accertamenti.
Il riconoscimento della minorazione civile – in alcuni casi dopo la “prova mezzi” (limiti reddituali) – dà luogo alla concessione di provvidenze economiche e consente l’accesso ad alcune altre agevolazioni.
Tabella 3. La valutazione delle minorazioni civili
Capacità di definire la menomazione |
Discutibile: l’indicazione delle menomazioni è correlata all’attribuzione di punteggio tabellato individuato secondo un’inabilità lavorativa generica. |
Capacità di definire l’interazione con le barriere (quali barriere) |
Assente: la percentuale di invalidità per la medesima menomazione è la stessa indipendentemente dal contesto in cui vive la persona. |
Capacità di individuare l’impedimento alla partecipazione/pari opportunità |
Assente: la percentuale di invalidità per la medesima menomazione è la stessa indipendentemente dalla storia personale o dagli ostacoli che la persona incontra. |
Capacità di rilevare l’evoluzione della menomazione e/o degli altri aspetti di interazione |
Discutibile: il sistema di valutazione prevede revisioni e controlli sempre più rivolti a revocare benefìci e provvidenze, solo sulla base della permanenza della menomazione invalidante. |
Ostacoli e barriere causati o indotti dal sistema di valutazione |
La valutazione finale, nonostante le risorse impegnate e il sovraccarico per la persona, non è sufficiente ad accedere a tutti i servizi, in ragione della disabilità. Devono comunque essere attivati altri percorsi accertativi (ad esempio l’handicap, la disabilità ai fini lavorativi, la non autosufficienza ecc.) e valutativi. |
A integrazione della precedente tabella di comparazione, va segnalato che i tempi medi di attesa di completamento dell’iter di accertamento dell’invalidità civile e di concessione delle relative pensioni e indennità superano i 120 giorni, con picchi – in alcuni territori – che arrivano anche a 270-300 giorni.
Rispetto poi al contenzioso, al 31 dicembre 2010 (ultimo dato disponibile), erano giacenti 362.642 casi in attesa di giudizio. Nel 2010, le persone costrette a ricorrere contro i verbali di invalidità hanno vinto in giudizio nel 57,7% dei casi (Corte dei Conti, Determinazione 77/11).
Questo accade nonostante il Cittadino – a causa di un complesso di norme via via più restrittive – sia posto in una condizione di svantaggio rispetto all’Ente contro cui deve ricorrere: non può agire per via amministrativa, dev’essere assistito da un legale, deve sottoporsi a ulteriori perizie, deve attendere i tempi lunghissimi della giustizia civile (spesso oltre due anni). Tale osservazione riguarda anche i procedimenti per l’accertamento dell’handicap e della cosiddetta “disabilità ai fini lavorativi”.
Lo stato di handicap
La legislazione italiana (articolo 3 della Legge 104/92), definisce la «persona handicappata» come «colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione». Si tratta di una nozione che pone l’accento sulle limitazioni delle facoltà (minorazioni) e sullo svantaggio sociale che deriva dalle minorazioni stesse (handicap), dunque sugli elementi che condizionano in negativo la vita della persona con disabilità. Nella definizione contenuta nella Legge 104/92 manca quindi un riferimento all’ambiente in cui la “persona con disabilità” vive e interagisce, in rapporto al quale le “menomazioni” devono essere valutate.
In termini molto sintetici, si riconosce il ruolo e l’importanza della menomazione nel determinare una condizione di handicap, ma l’elemento chiave che trasforma la menomazione in una condizione problematica per la persona è costituita dal fatto che questa menomazione crea una condizione di “svantaggio sociale” ovvero una diseguaglianza con le altre persone che si configura come “handicap”. L’automatismo secondo cui l’handicap è conseguenza della minorazione è stato fortemente criticato, dal momento che – ad esempio – una persona che si muove in sedia a rotelle non ha svantaggio in un ambiente senza barriere.
La connotazione di gravità viene assunta dall’handicap quando sia tale da determinare una riduzione dell’autonomia personale, al punto da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale, sia nella sfera individuale che in quella di relazione. E tuttavia, l’indicazione normativa di individuare una condizione di handicap e una di handicap grave non è stata mai seguita da una strumentazione valutativa specifica.
E ancora, la legge ha lasciato non definito un aspetto cruciale relativamente a quello che deve essere il focus della valutazione: la minorazione fisica, psichica o sensoriale che potenzialmente crea svantaggio, o il diretto e specifico accertamento di un’effettiva condizione di svantaggio sociale?
La valutazione dell’handicap è effettuata dalle stesse Commissioni operanti presso le Aziende Sanitarie Locali che accertano l’invalidità civile, integrate da un operatore sociale e da un medico dell’INPS. Ciascun verbale viene poi verificato dall’INPS stesso e convalidato o annullato dopo propri accertamenti.
Tabella 4. La valutazione dell’handicap
Capacità di definire la menomazione |
Assente: non definisce la menomazione. Riprende le indicazioni dei verbali di invalidità civile, con i problemi correlati. |
Capacità di definire l’interazione con le barriere (quali barriere) |
Assente: manca il riferimento all’ambiente in cui la “persona con handicap” vive e interagisce |
Capacità di individuare l’impedimento alla partecipazione/pari opportunità |
Assente: definisce lo svantaggio sociale che deriva dalla menomazione. |
Capacità di rilevare l’evoluzione della menomazione e/o degli altri aspetti di interazione |
Assente: mancando una valutazione dell’ambiente e del contesto, è impossibile valutare le modificazioni nel tempo. Il sistema di valutazione prevede revisioni e controlli sempre più rivolti a revocare benefìci. |
Ostacoli e barriere causate o indotte dal sistema di valutazione |
La valutazione finale, nonostante le risorse impegnate e il sovraccarico per la persona, non è sufficiente ad accedere a tutti i servizi, in ragione della disabilità. Devono comunque essere attivati altri percorsi accertativi (ad esempio invalidità, disabilità ai fini lavorativi, non autosufficienza ecc.) e valutativi. |
Rispetto alle criticità va qui annotato che il riconoscimento dell’handicap, specie se grave, consente l’accesso ad alcune importanti agevolazioni lavorative per i diretti interessati e per i familiari che li assistono. Il riconoscimento di handicap grave non è considerato – ai fini della concessione di questi benefìci – equivalente allo status di invalido civile totale. Questo è il principale motivo per cui, ancora oggi, sussistono due modalità valutative altrimenti inspiegabilmente non sovrapponibili.
La “disabilità” ai fini lavorativi
Nel 1999 è stata approvata un’importante norma (Legge 68/99), volta a favorire il collocamento mirato di persone con disabilità al lavoro. La disposizione prevede l’attivazione di specifici servizi, oltre a forme di obbligo, sanzione e incentivo per le aziende. Ma fissa anche una definizione di “aventi diritto” [Atto di indirizzo stabilito dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri – DPCM del 13 gennaio 2000, N.d.R.], che non è possibile indicare come innovativa, ma solo selettiva. In effetti, nulla di nuovo apporta in termini definitori, ma ripropone piuttosto come “disabili” gli invalidi civili (di altra causa) che rientrano in certe percentuali di invalidità.
Relativamente più “innovativa” – rispetto al contesto – è la modalità valutativa delle “capacità residue”, che supera la mera quantificazione in percentuale adottata per le invalidità civili, anche se la griglia di valutazione corrisponde a una lista di capacità/attività legate al lavoro ancora rigida e inadeguata.
Anche in questo caso la competenza di accertare la “disabilità”, o meglio le “capacità residue”, spetta alle Commissioni delle Aziende Sanitarie, integrate da un operatore sociale e da specialisti. E ancora, ciascun verbale viene sottoposto al controllo formale dell’INPS.
Tabella 5. La “disabilità” ai fini lavorativi
Capacità di definire la menomazione |
Discutibile: ripropone le stesse criticità della valutazione dell’invalidità civile e dell’handicap, pur con la considerazione delle “capacità residue”, concetto anch’esso superato dalla Convenzione ONU. |
Capacità di definire l’interazione con le barriere (quali barriere) |
Discutibile: l’interazione con le eventuali barriere e ostacoli nel luogo di lavoro è meramente teorica in sede valutativa. Parte dall’angolo prospettico delle capacità residue più che dall’analisi del contesto lavorativo (e para-lavorativo). |
Capacità di individuare l’impedimento alla partecipazione/pari opportunità |
Assente: si limita all’ambito di un teorico luogo di lavoro, valutando le capacità residue sulla base di una lista di capacità generiche, senza considerare il contesto più generale (ad esempio servizi di trasporto, atteggiamenti ecc.). |
Capacità di rilevare l’evoluzione della menomazione e/o degli altri aspetti di interazione |
Assente: non presente al momento della valutazione, l’evoluzione può essere rilevata – in presenza di un effettivo inserimento lavorativo – solo nel momento in cui si pongano dei problemi o delle necessità di mediazione. L’evoluzione non è valutata nelle persone non incluse nel mondo del lavoro o in quelle a rischio di esclusione. |
Ostacoli e barriere causate o indotte dal sistema di valutazione |
Notevole differenza territoriale nella valutazione delle “capacità residue”. |
L’handicap ai fini scolastici
Innanzitutto i riferimenti legislativi: l’articolo 12 della Legge 104/92 fissa il principio dell’individuazione dell’alunno con handicap quale premessa a determinati servizi per l’inclusione scolastica. Il Decreto del Presidente della Repubblica (DPR) del 24 febbraio 1994 è stato poi l’atto di indirizzo relativo ai compiti delle Unità Sanitarie Locali, in materia di «alunni portatori di handicap». Infine, il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) 185/06 ha fissato nuove modalità e criteri per «l’’individuazione dell’alunno come soggetto in situazione di handicap».
In ambito scolastico, dunque, la Legge 104/92 ha certamente rappresentato un passaggio essenziale nell’affermazione di alcuni diritti all’inclusione, ma ha anche fornito lo schema per la valutazione delle specifiche esigenze delle persone. La certificazione di «alunno con handicap» viene rilasciata dalla Commissione dell’Azienda USL alla quale va richiesta. Solitamente le famiglie vengono orientate dai servizi sanitari o sociosanitari. Infatti, prima di effettuare questa valutazione, è necessario che vi sia un inquadramento diagnostico e funzionale dal quale emerga la presenza di una situazione di limitazione funzionale, associata alla necessità di garantire supporti all’integrazione scolastica. La Commissione attesta la condizione di «alunno con handicap» e l’eventuale gravità.
Questa certificazione, però, non è l’unico documento “valutativo”. Infatti, il Piano Educativo Individualizzato o Personalizzato (PEI) è il progetto di vita dell’alunno con disabilità in età scolare e quindi comprende sia i criteri e gli interventi di carattere scolastico che quelli di socializzazione e di riabilitazione. Essendo un atto di programmazione, il PEI deve tenere conto di tutti gli elementi informativi contenuti in altri atti che la legge pone pure come obbligatori e cioè la Diagnosi Funzionale (DF) e il Profilo Dinamico Funzionale (PDF).
La Diagnosi Funzionale è la descrizione delle condizioni di limitazione funzionale in rapporto ai bisogni educativi dell’alunno, individuate dagli operatori dell’ASL, con la collaborazione della scuola e della famiglia. Non è una semplice descrizione delle funzioni attive o carenti dell’alunno, ma è un’analisi di queste funzioni, in vista della formulazione del PEI. Se la Diagnosi Funzionale, dunque, viene redatta una sola volta dagli operatori dell’ASL, per avere un quadro progressivo dell’evoluzione della personalità dell’alunno, sono necessarie osservazioni nel tempo, che vengono raccolte in un documento – il Profilo Dinamico Funzionale, appunto – che viene aggiornato al passaggio di ogni grado di scuola e redatto da tutti gli operatori che seguono l’alunno, cioè insegnanti, operatori sanitari e operatori sociali, con la collaborazione della famiglia. Sempre da tutti questi soggetti, poi, viene redatto annualmente il PEI, che comprende le indicazioni principali dei progetti di riabilitazione, socializzazione e scolarizzazione, indicati nell’articolo 13, comma 1 della Legge 104/92.
Alla redazione del PEI, seguiranno poi, in dettaglio, i singoli progetti di riabilitazione, socializzazione e scolarizzazione, predisposti ciascuno dai rispettivi operatori professionali, sulla base delle indicazioni contenute nel PEI stesso. La famiglia, dunque, ha diritto a partecipare alla formulazione del PEI e non può esserne esclusa.
Tabella 6. La valutazione dell’handicap ai fini scolastici
Capacità di definire la menomazione |
Parziale: parzialmente raggiunta grazie all’integrazione del mero accertamento dell’handicap, con la Diagnosi Funzionale (DF) e il Profilo Dinamico Funzionale (PDF). |
Capacità di definire l’interazione con le barriere (quali barriere) |
Parziale: gli accertamenti derivanti dalla valutazione non tengono in sufficiente considerazione le barriere presenti nel contesto reale e l’interazione generata con la persona. |
Capacità di individuare l’impedimento alla partecipazione/pari opportunità |
Parziale: la considerazione dell’impedimento è del tutto teorica e potrebbe essere valida in qualsiasi contesto. Il potenziale impedimento viene valutato in considerazione della “gravità” della menomazione e non dell’inadeguatezza del contesto. |
Capacità di rilevare l’evoluzione della menomazione e/o degli altri aspetti di interazione |
Parziale: solo il Profilo Dinamico Funzionale (PDF) viene rivisto e solo al cambio di grado di istruzione. La rilevazione delle eventuali variazioni viene lasciata alle considerazioni degli operatori educativi direttamente coinvolti nel percorso scolastico. |
Ostacoli e barriere causate o indotte dal sistema di valutazione |
Il riconoscimento di “alunno con handicap” è stato oggetto di interventi diretti e di induzione di atteggiamenti negativi al fine di limitarne il riconoscimento, per ridurre i costi del sostegno e del supporto scolastico. |
La non autosufficienza
Detto che la Legge Quadro 328/00 per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali indica ripetutamente interventi per i non-autosufficienti, pur non fornendo alcuna definizione specifica, va qui rilevato come nel corso degli ultimi quindici anni abbia trovato progressivo spazio di discussione e di sviluppo normativo – soprattutto a livello regionale – il concetto appunto di non-autosufficienza.
In diversi lavori di approfondimento tecnico di tale nozione, si è reso poi evidente che non è rintracciabile nella nostra normativa una definizione unitaria, nonostante in diverse occasioni ne sia stato espresso l’intento e la necessità, soprattutto quando le Regioni hanno istituito interventi per il supporto della “domiciliarità”, privilegiando in particolare gli anziani con gravi menomazioni.
In realtà, i tentativi valutativi sono incentrati sull’elemento della “menomazione” funzionale o anatomica (severa) e del suo impatto sulla riduzione dell’autonomia nello svolgimento di attività. In questa prospettiva, la riduzione di autonomia implica la necessità di un intervento assistenziale, il cui carico il Legislatore tenta di compensare con contributi, voucher, assegni di cura.
La valutazione della non-autosufficienza viene usata anche per orientare ricoveri in strutture differenziate, a seconda delle necessità assistenziali degli ospiti. Essa – indicata spesso come multidimensionale – avviene di solito attraverso équipe territoriali. La multidimensionalità dovrebbe significare che si tiene conto non solo della condizione psicofisica della persona, ma anche delle attività proprie della persona stessa, del suo contesto familiare e ambientale. Di fatto, le valutazioni si concentrano sulla necessità assistenziale (o carico assistenziale o intensità assistenziale), in modo spesso condizionato da quante sono effettivamente le risorse disponibili dell’ente “erogatore”, oppure sulla perdita di funzioni nelle attività della vita quotidiana o, infine, sui “livelli di compromissione” funzionale.
Anche il ricorso a scale valutative in sede di accertamento – spesso facendo riferimento alle sole difficoltà in casa – è assai variegato sul territorio nazionale, ma non compensa la debolezza del concetto, in questo molto simile a quello generico adottato per l’indennità di accompagnamento.
Va segnalato infine che la scelta di una terminologia negativa (non-autosufficienti) viene utilizzata anche per descrivere situazioni non di persone anziane, ma di persone con disabilità che necessitano di sostegni appropriati per conseguire una vita indipendente.
Tabella 7. La non autosufficienza
Capacità di definire la menomazione |
Parziale: non è la menomazione che è rilevante, quanto piuttosto il carico assistenziale generato come effetto della situazione patologica. |
Capacità di definire l’interazione con le barriere (quali barriere) |
Assente: la non autosufficienza deriva dalla gravità della menomazione e dai suoi effetti assistenziali diretti. |
Capacità di individuare l’impedimento alla partecipazione/pari opportunità |
Assente: la non autosufficienza non viene rilevata in funzione della partecipazione. Anzi, l’attenzione è sull’esito più che sulle ragioni che danno come esito negativo la perdita di abilità. |
Capacità di rilevare l’evoluzione della menomazione e/o degli altri aspetti di interazione |
Assente: non è prevista alcuna valutazione dell’evoluzione degli elementi di interazione. |
Ostacoli e barriere causate dal sistema di valutazione |
Manca ancora una definizione univoca e condivisa di non-autosufficienza che, nonostante le numerose elaborazioni e proposte, appare molto debole dal punto di vista concettuale. |
Conclusioni
– Le modalità di accertamento adottate nel nostro Paese, al di là di sovrapposizioni, incongruenze e alti costi di gestione solo marginalmente accennati, non sono assolutamente in linea con i nuovi concetti e principi sanciti dalla Convenzione ONU.
– La disabilità, così come definita dalla Convenzione, non viene attualmente accertata dai servizi italiani, né questi al momento sarebbero in grado di farlo a causa dell’assetto normativo, della prevalenza di una logica sanitaria, della carenza di strumenti e intenti di valutazione dei fattori ambientali. Mentre il sistema attuale ha architettato complessi sistemi di valutazione della persona, è ancora a uno stadio primitivo circa la conoscenza, la descrizione e, quindi, la ponderazione dell’ambiente circostante, tanto da non riuscire a distinguere tra ciò che sia un facilitatore e ciò che rappresenti una barriera.
– Non è sufficiente modificare il linguaggio (handicap con disabilità), ma è piuttosto indispensabile ricondurre la valutazione della disabilità (persona, interazione, ambiente) alle finalità della Convenzione ONU: l’individuazione della disabilità è funzionale alla promozione dei diritti umani, all’inclusione, alla modificazione dell’ambiente, al contrasto alla discriminazione e all’impoverimento. È legata alla protezione sociale e ad ogni altro aspetto sottolineato da quell’atto internazionale che ormai è Legge dello Stato.
– La confusione concettuale che le differenti definizioni normative ingenerano, appiattisce ogni termine a un concetto negativo, legato alla sola condizione di limitazione funzionale del soggetto. La concettualizzazione appropriata del termine disabilità, invece, favorirebbe la correttezza della definizione di persona con disabilità.
– La revisione dei criteri di accertamento della disabilità è un falso problema, se non viene prima chiarita la centralità dei diritti, della presa in carico, dei progetti individualizzati. È basandosi su tali aspetti che la valutazione assume un significato pratico, operativo e di cambiamento, non certo definendo percentuali di inabilità (generica) al lavoro, identiche anche al di là del contesto.
– Di quali siano gli strumenti preferibili per definire e descrivere, nella sua evoluzione, la disabilità non è questo l’ambito per discuterne. Di certo l’accertamento della disabilità – così come intesa dalla Convenzione ONU – non è più una “riserva” sanitaria né, tanto meno, medico-legale. Troppi sono gli elementi da considerare per poterne affidare la custodia a una sola specialità o a un solo settore.
*Direttore editoriale di Superando.it. Il presente testo è già apparso nel n. 14/12 della rivista «HandyLexPress», con il titolo La definizione della disabilità e la sua valutazione, e alla sua stesura hanno collaborato Pietro Barbieri, Marco Faini, Giampiero Griffo e Giovanni Merlo. Viene qui ripreso – con alcuni lievi riadattamenti al contesto – per gentile concessione.