Non sono certo temi nuovi, per un sito come il nostro, quelli riguardanti il cosiddetto “linguaggio della disabilità“, ovvero l’evoluzione dei termini con i quali nel tempo si parla di questi argomenti.
Citando a memoria, torna alla mente – già nel 2005 – un’ottima trattazione di Giampiero Griffo (Le parole sono pietre, disponibile cliccando qui), addirittura antecedente all’approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, cui lo stesso Griffo ha contributo in prima persona. Quanto mai significativa era la conclusione dell’articolo: «Il movimento mondiale delle persone con disabilità è stato capace di usare nuovi linguaggi e nuove forme di descrivere il mondo che non esclude: universal design, empowerment, mainstreaming sembrano parole lontane, ma diventeranno presto reali quando la Convenzione dell’ONU per la Tutela della Dignità e i Diritti delle Persone con Disabilità darà un’altra spallata all’imbarazzo di chi pretende di descriverci con le sue parole».
Né si può dimenticare il commento che nel 2007 Luisella Bosisio Fazzi, presidente del Consiglio Nazionale sulla Disabilità (CND), dedicò a una Sentenza prodotta in Spagna (Anche dalle parole passa il cambiamento, disponibile cliccando qui), sottolineando tra l’altro «la necessità – in ambito di disabilità – non di trovare forme nuove o parole “di moda”, ma di descrivere il concetto tenendo conto in primo luogo delle evoluzioni culturali del termine e quindi del concetto stesso».
E tuttavia, se oggi parliamo di questo, è perché proprio ieri il blog InVisibili del «Corriere della Sera.it» – del quale ci siamo già più volte occupati – ha presentato un articolo di Claudio Arrigoni, intitolato Invalido a chi? Disabilità: le parole corrette (disponibile cliccando qui), in un contesto del tutto diverso da quello di un sito come il nostro, ovvero, come ha ben sintetizzato Barbara Pianca, «dalle pagine virtuali di uno dei quotidiani più letti d’Italia, ove si può parlare a tanti, tantissimi Cittadini che con la disabilità non c’entrano niente, ma le cui scelte – da architetti, organizzatori di eventi, “parcheggiatori selvaggi”, genitori iperprotettivi, insegnanti e chi più ne ha più ne metta – condizionano il benessere di chi con la disabilità ha invece a che fare direttamente» (il testo integrale curato da Pianca è disponibile cliccando qui).
I risultati si sono visti nel giro di qualche ora: decine e decine di commenti, tra i più svariati, talora sconfortanti, altre volte sicuramente degni di nota. E proprio sul “fuoco” di quei commenti ha deciso di riflettere Franco Bomprezzi, con il testo che qui di seguito presentiamo. (S.B.)
Perché i lettori di «Corriere.it» hanno reagito così emotivamente, in modo tanto forte e veemente, a un articolo pacato e sereno come quello di Claudio Arrigoni, pubblicato dal blog InVisibili? Perché le parole fanno così paura? Come mai in molti sentono il bisogno irrefrenabile di scagliarsi contro il tentativo di spiegare, molto semplicemente, quali sono o sarebbero le parole più adatte, giuste, corrette? E dico solo “corrette”, perché molto spesso si confonde subito questo concetto con il “politicamente corretto”, che è invece molto spesso sinonimo di ipocrisia, di difficoltà di comunicazione autentica.
Mi sono dato una spiegazione e la offro ai Lettori, perché penso che questa possa portare a una salutare discussione collettiva, dalla quale ognuno esca meno povero intellettualmente, e forse anche umanamente.
Il motivo per cui continuiamo a cambiare le parole attorno alla disabilità è legato soprattutto alla connotazione negativa che tali parole, nel corso del tempo, vengono ad assumere. In pratica le parole si logorano prestissimo. Sparisce quasi subito la carica innovativa e positiva, e ogni termine, nato con le migliori intenzioni, si trasforma in un insulto, in un’offesa, a volte perfino in un modo di dire, da usare in contesti diversi.
Quante volte abbiamo sentito dire, in dialoghi grezzi, ma non solo da tamarri: «Ehi, sei un mongolo!». Oppure: «Io non sono mica handicappato!». Già. Magari fra qualche anno si dirà: «Io non sono mica un disabile…». Eppure stiamo parlando delle medesime persone, ovvero di persone che, in un contesto sociale, per un deficit fisico, sensoriale o intellettivo, si trovano in una condizione di disabilità.
Le parole si logorano perché in Italia, più che altrove, la disabilità è connotata negativamente, come un fardello ingombrante, un peso, un carico di sfortuna, di sofferenza, di diversità, di dolore. Le persone con disabilità in Italia si dividono in due: eroi o vittime. La normalità non esiste, viene sacrificata sull’altare di una comunicazione fuori registro, spesso ignorante e superficiale, incapace di trovare la sintonia tra le parole e le cose.
Perché in Francia sopravvive ad esempio il termine handicapé, senza che nessuno si offenda? Semplicemente perché in Francia l’inclusione sociale, umana, lavorativa è quasi scontata (ad eccezione della scuola, dove sopravvive il modello delle scuole speciali). In Spagna si usa addirittura il termine minus validos. Ma lì, specie a Barcellona (per fare un esempio concreto) le barriere architettoniche non esistono praticamente più.
La presenza delle persone con disabilità è dunque vissuta come normale, come positiva, ovviamente con le dovute eccezioni. Nel Regno Unito, nei DVD, la sottotitolazione è indicata per hard of hearings, che in italiano suonerebbe “duri d’orecchio. Quindi non solo tecnicamente i sordi, ma anche gli anziani. Ma lì i sottotitoli ci sono, mentre da noi quasi mai.
Il problema delle parole è che pesano come pietre. Vorrei che i Lettori più insofferenti al nostro argomento se ne facessero una ragione: non è una questione di lana caprina, o una discussione sul sesso degli angeli (che pure non è priva di significato). L’impaccio delle parole è la riprova che facciamo fatica a metterci in relazione gli uni con gli altri.
Anche il mondo della disabilità sconta questo limite: troppo spesso è chiuso in se stesso, in una discussione fra persone che condividono tutto, a cominciare dalle letture, per finire ai documenti estenuanti e illeggibili che purtroppo circolano ancora nelle associazioni e nei convegni.
Il merito di un blog come InVisibili, secondo me, è quello di costringerci tutti a uno sforzo di ascolto e di comprensione reciproca. Non siamo “handicappati frustrati”, come ha scritto un lettore con qualche problema personale. Siamo al contrario un gruppo di giornalisti che vivono benissimo, inseriti nel contesto sociale, ricchi di relazioni umane e di impegno. Chi ha scritto il precedente testo, cioè Claudio Arrigoni, tra l’altro non è una persona con disabilità, ma è un giornalista sportivo, apparentemente (ma solo apparentemente) normale.
Perciò i consigli sull’uso delle parole più corrette, per favore, prendeteli in considerazione con un po’ di rispetto. Non sono il frutto di un capriccio. Sono un segnale di educazione, e di apertura di dialogo con la società là fuori, con tutti voi, con tutti noi. InVisibili e non.
*Direttore responsabile di Superando.it. Il presente articolo è apparso (con il titolo L’handicap delle parole) anche in InVisibili, blog del «Corriere della Sera» (di quest’ultimo si legga anche nel nostro sito cliccando qui). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al contesto, per gentile concessione di tale testata.
Infine, su tutt’altro versante, ricordiamo quello che potremmo definire un vero e proprio fondamentale dossier di “etimologia legislativa”, ovvero Carlo Giacobini, Definizione e valutazione della disabilità: com’è arretrata l’Italia! (cliccare qui).
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