È proseguita il 20 aprile a Jesi (Ancona), la seconda edizione del ciclo di seminari promossi dal Gruppo Solidarietà, denominato Persone con disabilità. I diritti, i bisogni, le politiche, i servizi [se ne legga la presentazione nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.], con il secondo incontro, centrato sul tema Centri Diurni. Luoghi di separazione o di inclusione?, che ha visto la partecipazione di numerosi operatori, familiari e volontari.
Scopo del seminario era quello di interrogarsi sul senso e il ruolo dei Centri Diurni, come risposta alle esigenze delle persone con grave disabilità intellettiva. Una riflessione che si è poi allargata al ruolo e alla funzione dei servizi territoriali, anche alla luce delle attuali trasformazioni politiche, sociali ed economiche.
I due relatori, Mario Paolini, pedagogista e formatore di Treviso) e Mauro Burlina, psicologo, responsabile dell’Ufficio Disabilità dell’ULLS 6 di Vicenza, si sono confrontati sul significato e l’efficacia di questo servizio territoriale.
Nati negli anni Settanta, sulla scia delle grandi trasformazioni dell’epoca e soprattutto come una delle risposte ai processi di deistituzionalizzazione, oggi i Centri Diurni sono messi di fronte a nuove problematiche, come l’invecchiamento, l’aggravamento delle condizioni di salute e la condizione delle persone che diventano disabili in età adulta, soprattutto per esiti di traumi.
Tre i principali protagonisti della riflessione: la persona con disabilità e la sua famiglia, gli operatori, le politiche sociali. Ci si è interrogati su come si possa mettere a disposizione un’esperienza ultratrentennale all’interno del più ampio panorama progettuale delle politiche sociali attuali, riconoscendo il fondamentale ruolo della famiglia. In particolare, i relatori si sono chiesti se i servizi – e in questo caso il Centro Diurno – sono capaci di riconoscere l’identità della persona con disabilità: infatti, sulla base di come si imposta la relazione di cura ed educativa, l’operatore riconosce o disconosce l’identità della persona, senza dimenticare mai che quest’ultima ha le sue radici nella famiglia e che si costituisce anche di altre “tessere”, relative ai diversi contesti che il disabile stesso frequenta.
La prima domanda da porsi è quindi: tutti lavorano nel Centro Diurno per costruire l’identità del disabile? E ancora: qual è l’efficacia oggi del Centro Diurno? E dentro quale progettualità è inserito il “Progetto Centro Diurno”?
Per non disperdere energie e competenze, è necessario prima di tutto che ci sia una sovrapposizione ampia e possibile tra la progettualità degli educatori del Centro Diurno, della famiglia e del sistema delle politiche sociali. Il lavoro del Centro Diurno deve cioè essere messo a disposizione, per costruire quotidianamente l’identità della persona disabile e garantirle al tempo stesso il diritto a diventare adulta, acquisendo la massima autonomia possibile.
E a proposito della famiglia, cosa si aspetta quest’ultima? Cosa significa per una famiglia mandare un figlio adulto con disabilità al Centro Diurno? Si è ribadita in tal senso la necessità di affiancare la famiglia in questo percorso – prima dell’ingresso e dopo – facendo capire che il Centro Diurno apre e chiude ogni giorno e che le sperimentazioni quotidiane di autonomia e identità che gli operatori programmano in tale struttura con il disabile devono essere poi riproposte anche al di fuori. Solo in questa prospettiva, infatti, il Centro Diurno non verrà più visto dalla famiglia come “fine dei sogni” o “unica possibilità di sollievo”, sensazione che purtroppo spesso i genitori si trovano a percepire, alla fine del percorso scolastico per i loro figli adulti, che non avranno possibilità di essere inseriti nel circuito del mondo del lavoro.
È necessario dunque stabilire un patto educativo, che riconosca il ruolo della famiglia svolto fino a quel momento (con tutte le problematiche, difficoltà e distorsioni che ciò può implicare); la famiglia dev’essere sicura che è stata capìta e sulla base di questo presupposto potrà fidarsi e farsi affiancare nel percorso di riconoscimento dell’individualità del figlio.
Nel lavoro quotidiano di cura ed educazione dei Centri Diurni, questo si traduce nella personalizzazione dell’intervento (piano educativo): vale a dire che solo dopo aver conosciuto il disabile, la sua storia, la sua famiglia, potrò costruire un percorso personalizzato, finalizzato alla costruzione della sua identità; percorso che ovviamente l’équipe dovrà rivalutare e modificare, in un modello quasi “artigianale”. Personalizzazioni, insomma, finalizzate all’autodeterminazione, cioè al riconoscimento del diritto della persona disabile di essere capace di decidere per se stessa: in questo senso il Centro Diurno è aperto e diventa una forma di appartenenza. Il rischio per i genitori, infatti, è che il desiderio di protezione dei figli superi quello di farli crescere e diventare adulti, non riconoscendo la loro potenziale individualità. Per fare questo, gli educatori devono essere ben consapevoli di quello che fanno, sul loro lavoro e sulla qualità degli incontri.
In conclusione, per essere realmente un luogo di inclusione e di apertura, il Centro Diurno deve diventare un luogo di immaginazione, con lo spazio necessario per disegnare e ridisegnare i progetti, in un lavoro quotidiano che si sperimenta e concretizza con gesti semplici di cura, ripetuti e pensati.
Ma parlare di “Centro Diurno aperto” significa anche affermare che esso è “di tutti”, che è un luogo della comunità; infatti, solo un programmato e coordinato lavoro di rete e di corresponsabilità potrà evitare che questi luoghi siano e vengano percepiti come chiusi ed escludenti.