Leggendo il libro di Massimiliano Verga [Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile, Mondadori, 2012, N.d.R.], ho avuto immediatamente forte l’impressione di come esso rappresenti molto bene la polarizzazione di sentimenti contrastanti e ambivalenti presenti in molti genitori di ragazzi con handicap che ho incontrato nell’esercizio della mia professione. L’amore estremo, viscerale e la rabbia forte, fortissima, che rasenta l’esasperazione per l’handicap e per il figlio che lo incarna.
A mio avviso, censurare o biasimare quanto espresso da Verga nel suo libro, equivarrebbe a censurare e biasimare i pensieri di tanti genitori che nel loro intimo – senza salire sul pulpito mediatico dal quale ha scelto di esprimersi l’Autore – sono consapevoli di provare anche sentimenti ostili nei confronti dei loro figli. Sentimenti coperti da matasse e matasse di amore iperprotettivo, rabbia che, nell’impossibilità di essere espressa, logora chi la sperimenta, retroflette e diventa tossica, conduce all’esaurimento, alla depressione o a fare gesti impulsivi e distruttivi.
Sia chiaro, l’espressione della rabbia dovrebbe avvenire in un contesto terapeutico protetto, non come semplice catarsi, ma come movimentazione di energie e ricerca di significati.
Sia chiaro, l’espressione della rabbia dovrebbe avvenire in un contesto terapeutico protetto, non come semplice catarsi, ma come movimentazione di energie e ricerca di significati.
Nel periodo più oscuro che l’umanità possa ricordare, quello in cui dominava il nazismo, i libri venivano bruciati, le idee venivano considerate pericolose. La vitalità di una società è data dalla capacità di accogliere ogni tipo di idea, anche quelle più controverse e “pericolose”, sapendo al contempo rispondere con un contraltare di idee positive che sappiano rendere conto della disperazione di chi le esprime e tentare di dare delle risposte.
L’immagine che ho avuto davanti agli occhi leggendo il libro di Verga è quella di un uomo e di un ragazzo disabile esistenzialmente soli. Winnicott [riferito al medico e psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott, N.d.R.] sosteneva che quando nasce un bambino non esistono due individualità – il bambino e la madre – ma un’unica entità, data dalla diade madre-bambino. Il libro di Verga sembra rappresentare l’assolutizzazione ed eternizzazione di questo concetto: padre e figlio destinati ad essere uniti per sempre nella sofferenza e isolati da tutti.
Verga – così come molti altri genitori – sembra negarsi anche la speranza di riuscire a trovare una condivisione o di sperimentare l’empatia altrui. Il dolore riesce a trovare mille motivazioni razionali per sentirsi unico e senza possibilità di condivisione, per sentirsi “più dolore di quello altrui”.
Se riusciamo a prendere contatto con le nostre emozioni e smettiamo di rincorrere interpretazioni e razionalizzazioni, riusciamo ad empatizzare con l’altro e così comprendere come anche gli altri possano sperimentare un sentimento analogo per noi. Lo sviluppo di una comunanza empatica è il primo passo per cominciare a costruire la rete intorno alle famiglie e ai figli.
Il sostegno emotivo, nonché pratico, che può derivare dal circondarsi di persone e servizi che, ognuno con il proprio ruolo, danno un contributo piccolo ma efficace, è l’unica strada per vivere il presente senza tormentarsi e per progettare il futuro dei propri figli.
L’immagine che ho avuto davanti agli occhi leggendo il libro di Verga è quella di un uomo e di un ragazzo disabile esistenzialmente soli. Winnicott [riferito al medico e psicoanalista inglese Donald Woods Winnicott, N.d.R.] sosteneva che quando nasce un bambino non esistono due individualità – il bambino e la madre – ma un’unica entità, data dalla diade madre-bambino. Il libro di Verga sembra rappresentare l’assolutizzazione ed eternizzazione di questo concetto: padre e figlio destinati ad essere uniti per sempre nella sofferenza e isolati da tutti.
Verga – così come molti altri genitori – sembra negarsi anche la speranza di riuscire a trovare una condivisione o di sperimentare l’empatia altrui. Il dolore riesce a trovare mille motivazioni razionali per sentirsi unico e senza possibilità di condivisione, per sentirsi “più dolore di quello altrui”.
Se riusciamo a prendere contatto con le nostre emozioni e smettiamo di rincorrere interpretazioni e razionalizzazioni, riusciamo ad empatizzare con l’altro e così comprendere come anche gli altri possano sperimentare un sentimento analogo per noi. Lo sviluppo di una comunanza empatica è il primo passo per cominciare a costruire la rete intorno alle famiglie e ai figli.
Il sostegno emotivo, nonché pratico, che può derivare dal circondarsi di persone e servizi che, ognuno con il proprio ruolo, danno un contributo piccolo ma efficace, è l’unica strada per vivere il presente senza tormentarsi e per progettare il futuro dei propri figli.
*Psicologo, formatore per operatori del sociale e persona con disabilità motoria (sito: www.bizzarrilelio.it).
Sulle questioni trattate nel presente contributo, suggeriamo anche – sempre nel nostro sito – la lettura di: Caramelle sprecate (di Giorgio Genta, cliccare qui); Zigulì: il sapore della sincerità (di Simona Lancioni, cliccare qui); Zigulì non è un viaggio, ma una giostra che gira su se stessa (di Igor Salomone, cliccare qui); La mia vita dolceamara con un figlio disabile (cliccare qui); Per tutelare tutti gli «Zigulì» che vivono in questo Paese (di Franco Bomprezzi, cliccare qui).
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