Ci sono momenti simbolici che servono a ricordare. Il fatto che manchino cento giorni all’apertura dei Giochi Paralimpici di Londra (il 29 agosto) significa poco o nulla, ma chi conosce lo sport sa che è importante. Permette di fermarsi a pensare. E sulla Paralimpiade serve farlo. Finalmente ce ne si accorgerà di più? Viene da chiederselo, visto che ora le premesse ci sono tutte: record di Paesi (165, 19 in più di Pechino 2008), atleti (4.200 contro i 3.951 presenti in Cina), copertura televisiva (audience potenziale di 4 miliardi di persone, due reti in Italia – RAI e Sky – a trasmetterlo integralmente). Numeri belli. Eppure parlare di sport per persone con disabilità è ancora difficile.
Nel tempo la considerazione verso lo sport paralimpico è cambiata. Ma non sono molti quelli che sanno che il secondo evento sportivo mondiale dopo l’Olimpiade non è il Mondiale di Calcio o di Atletica o di Nuoto o il Superbowl. È la Paralimpiade. Un pugno in faccia ai luoghi comuni.
C’è chi è senza gambe e corre (qualcuno pensa che Oscar Pistorius non sia un grande atleta?), chi riesce a muovere appena la testa e indirizza una boccia a un centimetro dal boccino (chi non ha mai visto una gara di boccia, si sintonizzi per Londra: il più bello sport paralimpico!), chi pedala con le braccia (chiedere ad Alex Zanardi se mette meno passione nell’handbike di quella che aveva in Formula Uno), chi gestisce un cavallo con la bocca (le prove di dressage mostrano quanto il feeling con l’animale non sia un fatto di dominazione manuale), chi gioca nel silenzio assoluto di migliaia di persone (il goalball è sport nato per persone cieche e in gara non vi dev’essere rumore per sentire la palla sonorizzata). Atleti straordinari. Sport emozionanti. Che non molti conoscono.
La Paralimpiade cambia la cultura e società. Dice Tessa Jowell, ministro britannico per Olimpiade e Paralimpiade: «Vogliamo che ai Giochi Olimpici e Paralimpici si presenti una Gran Bretagna senza barriere». Il luogo che le ospita si fa accogliente: migliaia di persone con disabilità nello stesso luogo e nello stesso momento: è l’eredità paralimpica. Una Paralimpiade spinge a modifiche strutturali della società: diventa indispensabile migliorare le città. E questo serve ad anziani, famiglie e mamme con bambini. Porta persone con disabilità a fare sport. Questo fa risparmiare, per chi ha in mente solo calcoli economici.
Dice Luca Pancalli, presidente del CIP (Comitato Paralimpico Italiano): «Tutti coloro che praticano attività motoria con assiduità, senza stare a pensare a medaglie, sono persone con disabilità che si rivolgono meno al Servizio Sanitario Nazionale».
Chissà se sarà la volta buona. E se si penserà a tutto questo. A Roma si comincia già a farlo, celebrando il “-100” all’Ambasciata britannica. Ne parleranno anche Pancalli e il ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Elsa Fornero. Ad ascoltarli ci sarà Beatrice “Bebe” Vio: l’ambasciatore Prentice l’ha voluta infatti quale ospite d’onore della giornata. “Bebe” ha appena vinto la sua prima medaglia, un argento, in una prova di Coppa del Mondo di scherma in carrozzina. Lei, unica senza braccia e gambe.
Ecco cosa vuol dire passare dalla cultura della riabilitazione alla cultura dell’abilità. Dice Oscar Pistorius: «Non sei disabile per le disabilità che hai, sei abile per le abilità che hai».
Il presente articolo è apparso (con il titolo 100 giorni alla Paralimpiade: un pugno in faccia ai luoghi comuni) anche in InVisibili, blog del «Corriere della Sera». Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al contesto, per gentile concessione di tale testata.
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