Giusto vent’anni fa, in un ciclo di seminari intitolato Dalla cultura dell’inserimento a quella dell’integrazione, il Gruppo Solidarietà affrontava il tema delle condizioni e degli strumenti necessari per realizzare effettivi percorsi di inclusione al lavoro. Nel 1996, poi, pubblicava Lavoro: un diritto di tutti anche delle persone handicappate, dove ci si interrogava sulle modalità di superamento della Legge 482/68 e si presentavano esperienze innovative come quella del Veneto, attraverso la nascita dei primi SIL (Servizi di Integrazione Lavorativa).
Oggi – in un momento storico di grave crisi nel campo dell’occupazione e del lavoro – ancora il Gruppo Solidarietà ha deciso di tornare ad affrontare il tema del diritto al lavoro delle persone con disabilità e in particolare di quelle con disabilità intellettiva.
Ne hanno parlato, il 18 maggio scorso a Jesi (Ancona) – a conclusione del ciclo di seminari denominato Persone con disabilità. I diritti, i bisogni, le politiche, i servizi -, Carlo Lepri, psicologo del Centro Studi sull’Integrazione Lavorativa dell’ASL 3 di Genova (ricordato da tutti per avere maturato assieme a Enrico Montobbio “esperienze maestre” dell’integrazione lavorativa in Italia) ed Enrico Verdozzi, Responsabile del SIL (Servizio Integrazione Lavorativa) dell’USSL di Belluno.
Nonostante i cambiamenti culturali, legislativi e politici, ci si pone tutt’oggi di fronte al quesito se esista davvero una consapevolezza del lavoro come diritto per tutti. Se non si è ancora affermato, perché? Perché in alcuni territori si avviano ancora le persone con disabilità nei servizi sociosanitari, indistintamente dalle loro possibilità? Quali sono le condizioni, i presupposti, gli strumenti per praticare il diritto al lavoro?
Su queste tracce si è articolato un ampio confronto che ha dato adito a numerose domande e sollecitazioni. Ripartire da tanti anni fa, da quando si è cominciato a voler superare la Legge 482/68, a voler cambiare, a voler immaginare persone con disabilità come capaci anche di assumere un ruolo e un lavoro, aiuta a riflettere sull’oggi. Come la storia dimostra, le leggi spesso normano sperimentazioni già in atto, come successe poi con la Legge 68/99.
Quando ancora non c’era l’idea che persone con disabilità intellettiva potessero lavorare, famiglie e operatori hanno lottato per poter affermare il contrario. Da quali condizioni oggi bisogna ripartire?
Anzitutto dalla stessa idea culturale che si ha della persona disabile, l’idea, cioè, che possa diventare grande, adulta, che possa maturare una propria identità. L’essere adulti è il tema e il lavoro è uno strumento per vivere questa condizione, non il contrario! Coprire un ruolo sociale, partecipare alla vita della collettività, sentire di farne parte; se da qui si iniziano a programmare percorsi, allora si strutturano solide reti di integrazione lavorativa, che implicano risorse economiche adeguate, personale formato e sufficiente da garantire continuità ai progetti.
Per fare tutto ciò ci vuole però una regìa che governi una rete di soggetti (centri per l’impiego; scuole; aziende; operatori della mediazione; cooperative) e servono strumenti adeguati fatti di progettualità, che, a seconda dell’obiettivo, siano calati sulla persona. Avranno un nome diverso nella gamma dell’offerta formativa: progetto formativo, borsa lavoro, tirocinio, assunzione ecc. Tutto questo, però, si può fare solo accompagnando la persona a un percorso di crescita e di consapevolezza su cosa stia facendo.
«La condizione adulta – come ha spiegato Lepri – non è una condizione acquisita una volta per sempre, è un processo psicologico che fa innanzitutto i conti con molti fattori sociali, contestuali, familiari, intellettivi e soprattutto relazionali». L’obiettivo per le persone con disabilità intellettiva non è imparare un lavoro (una serie di studi nel tempo hanno dimostrato infatti che il problema non sta nell’apprendimento di una mansione da svolgere), ma devono essere accompagnate ad imparare a lavorare. Imparare cioè a gestire se stessi in contesti diversi, a stare dentro a ruoli sociali, dentro a regole, a contesti di lavoro, a vivere le frustrazioni, a stare con i propri limiti.
Imparare questo è imparare a stare nella società; ma è proprio la società ad avere una grossa responsabilità (operatori, familiari, scuole, centro di socializzazione, tutti).
Stare nelle situazioni vere, reali richiede però tempo, un tempo che inizia molto prima del diciottesimo anno di età e dove molti sono chiamati in causa! Ma dove si “allenano” le competenze relazionali, che sono i prerequisiti per lavorare?
Come ha sottolineato Verdozzi, «si dovranno mettere in campo soluzioni innovative per fare sperimentare alla persona disabile un ruolo sociale prima del lavoro: introdurre le persone in contesti in cui ci siano ruoli, gruppi, regole, come ad esempio le organizzazioni del territorio, il volontariato, in cui possano maturare esperienze di socialità adulta». In altre parole, mettere le persone in situazione, per poi affrontare il mondo del lavoro.
E tuttavia, per innovare bisogna assumere il coraggio di un’inversione di marcia, immaginare nuovi orizzonti per far nascere – come un tempo – novità di percorsi. Se vogliamo infatti continuare a credere come sostenibile l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità, è necessario sganciarsi dalla logica della certificazione (le possibilità di accesso secondo tradizionali categorie giuridiche: aventi diritto sulla base della riduzione della capacità lavorativa; percentuali di invalidità; diagnosi), per approdare alla logica del diritto alla partecipazione sociale di tutti.
Perché è proprio vero che possibilità e invalidità sono coincidenti in una determinata persona? A volte le possibilità di lavorare sono inferiori a quelle certificate per invalidità o il contrario. Dunque, è importante conoscere la persona, la sua storia precedente, il contesto da cui proviene, e da questi fattori programmare interventi.
La crisi attuale del lavoro comporta poi la necessità di reinventarsi e reinventare anche il ruolo di un altro soggetto, quello delle Cooperative di tipo B che vivono nei territori e che stanno attraversando un fase complessa per sostenersi nel mercato e continuare la mission della solidarietà. Che la soluzione sia proprio quella di ripartire dalle comunità locali? Certamente sì, con persone e strutture capaci di gestire i percorsi, di coinvolgere le famiglie come attori importanti alla riuscita del percorso, di avviare cioè processi di consapevolezza e di emancipazione per una reale partecipazione alla vita collettiva.
Ma occorre sempre una regìa adeguata, senza la quale il rischio è quello della dispersione e dell’irrilevanza degli interventi.