«Costretto su una sedia a rotelle». Quante volte mi sono imbattuto in questa pessima frase fatta, utilizzata a ogni pie’ sospinto da colleghi giornalisti, di carta stampata o di televisione, per connotare la situazione disgraziata di una persona che non può più camminare, o in seguito a un incidente, o per malattia. C’è persino la variante involontariamente blasfema: «Inchiodato su una sedia a rotelle».
Credo che chi usa queste espressioni non si renda neppure conto del danno che produce, innanzitutto al mio sistema nervoso, ma più in generale a una corretta comunicazione sulla disabilità.
Io di me stesso scrivo sempre: «Vivo e lavoro in sedia a rotelle». Vivo e lavoro, ossia sono libero, “grazie” alla carrozzina. Senza di lei sarei immobile, perché – questo è vero – non riesco a camminare, neppure se mi prendono a calci. Sono così dalla nascita, e dunque probabilmente ci faccio meno caso di altri.
La carrozzina è quasi congenita, mi si adatta, o meglio io ormai aderisco alla sua superficie, la calzo come un guanto, la conosco perfettamente e, a dire il vero, la trascuro non poco, a causa della mia altrettanto congenita pigrizia.
Parlo oggi di carrozzina e di libertà, anche per uscire ulteriormente da quel terribile stereotipo che si lega alla diffusione per legge di un simbolo stilizzato, silhouette bianca in campo azzurro, oppure nera su sfondo arancione, che ormai è talmente connaturata all’idea di handicap da essere diventata la parte per il tutto, fino a connotare non solo la disabilità motoria, dalla quale il simbolo trae origine, ma addirittura l’intero campo dei deficit, compresi quelli sensoriali e intellettivi, il che, sinceramente, è quanto meno singolare e, onestamente, irriguardoso.
Il mio elogio della carrozzina, sincero e convinto, è anche un modo per invitare tutti a ripensare a questo mezzo di locomozione che sta conoscendo una rapida e doverosa evoluzione nei materiali, nei colori, nella gamma, nelle personalizzazioni.
Ci sono tantissime persone convinte che esista la cosiddetta “carrozzina standard”. Quella che dovrebbe passare da porte strette, entrare in ascensori angusti, salire a bordo degli autobus e delle autovetture, affrontare brillantemente i ripidi scivoli dei marciapiedi o le soglie alte dei negozi. Mi spiace deluderli: la carrozzina “standard” non esiste. Non è mai esistita, per la verità. Ma se volete avere un’idea di che cosa oggi possa essere o diventare una sedia a rotelle fatevi un giro in questi giorni a ReaTech Italia, la manifestazione che fino al 27 si svolge nei padiglioni della nuova Fiera di Milano, a Rho. Un’occasione eccellente per verificare le novità, le opportunità, le tipologie: dalla handbyke da corsa – che è più veloce di una bicicletta – alla carrozzina elettronica da strada, dalla sedia a rotelle in titanio al verticalizzatore che consente la posizione eretta anche per chi non cammina. Senza contare le normali, classiche, carrozzine manuali, che possono essere “a crociera”, pieghevoli, oppure a telaio rigido. Insomma, la carrozzina questa sconosciuta. Per non parlare di tutta la gamma degli ausili – anche tecnologici e domotici – che stanno rendendo migliore la qualità della vita delle persone con disabilità.
E pensare che quando si scrive «costretto su una sedia a rotelle» si uccide il desiderio di migliaia di persone anziane di mantenere una relativa autonomia di movimento anche quando le gambe cominciano a cedere per l’età e per gli acciacchi. Provate a chiedere ai vostri nonni se non si sentirebbero menomati, qualora gli venisse proposto di usare una carrozzina, almeno per gli spostamenti fuori casa. La risposta è persino scontata. «La carrozzina è una roba per malati, per paralitici. Guai persino a pensarci!». E invece nel nostro futuro dovremmo poter immaginare anche una diffusione normale, serena e positiva, di un mezzo che è sinonimo di libertà e di sicurezza.
Io, in carrozzina, ho girato il mondo. Ogni giorno vivo e lavoro in carrozzina. Le voglio bene. Specie se non si rompe. Pensateci.