Il principale riferimento di questo bel contributo di Marcello Piredda, che presentiamo oggi ai Lettori, è una vicenda di cui recentemente si è parlato molto, anche perché a raccontarla è stato uno scrittore noto come Fulvio Ervas, nel suo ultimo libro Se ti abbraccio non aver paura (Milano, Marcos y Marcos, 2012). È la storia di Franco Antonello e del figlio Andrea, affetto da un disturbo dello spettro autistico, e del loro percorso, comprendente anche una vera e propria “cavalcata di viaggio” in America.
Se n’è parlato molto anche in TV, ad esempio il 13 aprile, con la lunga intervista di Daria Bignardi allo stesso Antonello, durante il programma di La 7 Le invasioni barbariche e sulla “grande stampa”, in particolare con un intervento di Concita De Gregorio, pubblicato il 14 aprile da «la Repubblica» (Il padre, la malattia del figlio e il romanzo di un viaggio). Da parte nostra, poi, avevamo dato ben volentieri spazio a una nota di Liana Baroni, presidente nazionale dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici), significativamente intitolata Esperienza di vita, non manuale di terapie.
In realtà, quella vicenda ci sembra costituisca semplicemente uno spunto, per Piredda, utile a tratteggiare un drammatico spaccato della “vita di una famiglia con autismo”. Egli stesso la definisce una «ristrettissima descrizione», ma a noi appare una testimonianza quanto mai emblematica, profonda e sincera. (S.B.)
Piccolo prologo estratto da Wikipedia: «Gli autistici mostrano un’apparente carenza di interesse e di reciprocità relazionale con gli altri; tendenza all’isolamento e alla chiusura sociale; apparente indifferenza emotiva agli stimoli o, al contrario, ipereccitabilità agli stessi; difficoltà a instaurare un contatto visivo diretto: il bambino che intorno ai due anni di età continui a evitare lo sguardo degli altri mostra, secondo diversi studi, una maggiore possibilità di sviluppare l’autismo. Gli autistici hanno difficoltà nell’iniziare una conversazione o a rispettarne i “turni”, oltre a difficoltà a rispondere alle domande e a partecipare alla vita o ai giochi di gruppo. Non è infrequente che bambini affetti da autismo vengano inizialmente sottoposti a controlli per verificare una sospetta sordità, dal momento che non mostrano apparenti reazioni (proprio come se avessero problemi uditivi) quando vengono chiamati per nome. Si riscontra una marcata resistenza al cambiamento, che per alcuni può assumere le caratteristiche di un vero e proprio terrore fobico. Questo può accadere se viene allontanato dal proprio ambiente (camera, studio, giardino, ecc.), o se nell’ambiente in cui vive si cambia inavvertitamente la collocazione di oggetti, del mobilio o comunque l’aspetto della stanza. Lo stesso può verificarsi se si lasciano in disordine oggetti (sedie spostate, finestre aperte, giornali in disordine): la reazione spontanea della persona autistica sarà quella di riportare immediatamente le cose al loro ordine o, se impossibilitato a farlo, manifestare comunque inquietudine. La persona può allora esplodere in crisi di pianto o di riso, o anche diventare autolesionista e aggressiva verso gli altri o verso gli oggetti».
Chi ha a che fare con l’autismo sa bene quali caratteristiche ne possono determinare la diagnosi, anche se tra autistico e autistico ci possono ovviamente essere delle differenze anche notevoli.
Ma ancor più notevoli sono tra autistico e affetto dalla sindrome di Asperger, e sinceramente, dopo aver visto alcuni filmati riguardanti questo ragazzo e suo padre [Franco Antonello e il figlio Andrea, N.d.R.], ormai famosi, mi viene spontaneo chiedermi chi abbia dato la definizione di autistico al ragazzo. Guarda negli occhi, risponde, sorride, si trova a suo agio ovunque, persino in mezzo al baccano tra balli e tamburelli e viaggiando su una moto. E mi chiedo: l’autismo dov’è?
Poco poco e piano piano vorrei dire com’è l’autismo nudo e crudo, quello vero. Quello che non solo ti renderebbe assolutamente impossibile portare tuo figlio su una moto, ma ti fa temere anche solo che la moto passi a duecento metri di distanza e che tuo figlio ne senta il rumore, e perciò si spaventi e magari si metta a gridare e correre, senza badare ai pericoli e alla strada.
Benché gli autistici non siano tutti uguali, sono sicuro che la gran parte dei familiari di un autistico “autentico” riconoscano certe caratteristiche delle quali voglio parlare.
Mio figlio – a parte rari momenti – è ipersensibile a una grande varietà di rumori, e tra questi ci sono i “dannati” rumori dei motorini e delle moto. Gli fanno perdere il poco controllo che ha di sé, rendendolo imprevedibile. Può essere un problema anche portarlo in auto, dal momento che quasi mai accetta di essere portato dove vuoi tu. E se ti sorpassa la solita moto rumorosa? Torniamo a bomba, si agita e grida.
Ma poniamo che queste siano caratteristiche sue particolari e personali, che sia il suo autismo. Però c’è dell’altro, Gabriele non ti guarda negli occhi sempre, ma anzi neanche spesso. Direi proprio raramente. Non risponde sempre alle tue domande e quasi mai ti risponde a tono o con criterio logico. Ogni cambiamento lo può innervosire e portarlo a delle crisi paurose, durante le quali grida, e per grida intendo GRIDA, non so se avete presente quando si scanna un maiale… Beh, non tutti avranno assistito a un evento del genere, ma posso assicurare che sono urla terribili e per quanto si possa essere sensibili nei confronti degli animali, ben altro effetto fa sentire urla strazianti del genere da un figlio.
Durante le sue crisi, spesso si morde le mani, nelle quali ha perenni cicatrici che, con pazienza, curiamo quotidianamente. E quanto durano queste crisi? Nel suo caso anche ore, per poi riprendere dopo brevi pause. Praticamente ci sono giornate quasi interamente passate a cercare di calmarlo, di distrarlo, di tentare l’impossibile, pur di vederlo calmo per almeno una preziosa decina di minuti. E qualsiasi iniziativa può essere non solo inutile, ma addirittura dannosa e peggiorativa per la sua situazione.
Ricordo un’estate in cui – illuso dalle belle giornate e da una sferzata di ottimismo – presi in affitto per venti giorni una villa in riva al mare, lontano da casa e da tutto, nella speranza di farlo felice, di rilassarci e distrarci. Passammo bene o quasi i primi tre o quattro giorni, con ore di svago in spiaggia e qualche giro turistico nell’Isola di Sant’Antioco. Poi accadde l’imprevisto; vide in spiaggia una maschera subacquea e non volle più tornarci. Dopo giorni di inutili tentativi amichevoli, di inutili giochini psicologici per convincerlo ad andare in spiaggia, provai persino a costringerlo con la forza. Niente da fare. Tornammo a casa con le pive nel sacco e da allora non volle vedere il mare nemmeno in cartolina per un lungo periodo.
Dopo qualche tempo – dimenticata o quasi quell’esperienza – decidemmo di portarlo ancor più lontano e andammo in Corsica, attraversandola tutta. A parte qualche momento di serenità e svago, furono un vero incubo sia il viaggio di andata che il soggiorno, il rientro ancora peggio.
Convivere con l’autismo significa dovercisi dedicare totalmente, specie se vuoi evitare possibili guai. Conosco autistici che fanno di tutto per eludere la sorveglianza e cercare di infilare oggetti appuntiti dentro le prese elettriche. Altri che sono stati presi all’ultimo momento prima che “spiccassero il volo” da un davanzale. Altri ancora, relativamente tranquilli fino ad una certa età, improvvisamente diventano violenti e aggressivi.
Per ora non posso certo dire che mio figlio sia aggressivo, e a parte le urla e i morsi che si auto infligge, non è capace di far male ad una mosca. Ma so bene cosa passai un giorno in cui, in campagna, entrò in un’auto per giocare con i tergicristallo, che allora erano una sua fissazione. Girò la chiave nel quadro e quella si mise in moto, e purtroppo era stata lasciata senza freno a mano, con la seconda marcia inserita, in una leggera discesa che più avanti aumentava e che pochi metri dopo finiva drasticamente in un burrone.
Ricordo solo che sentii mia moglie gridare allarmata «Gabriele…», che mi voltai e che vidi anch’io ciò che guardava: un’auto che scendeva nel pendio con dentro nostro figlio, sballottato sul sedile e con lo sportello aperto. Fu un attimo. Mentre tutti i presenti rimasero pietrificati dallo spavento, saltai un cancello e mi ritrovai lì accanto a lui, tenendo con il braccio sinistro lo sportello affinché non si chiudesse e con il destro il montante dell’auto per cercare di frenarla.
Sono sembrati un’eternità, quei pochi secondi in cui vedevo il suo sguardo spaventato, i suoi piedi che penzolavano fuori, lo sportello che tendeva a chiudersi perché nel frattempo stavamo attraversando una vigna e abbattendo i paletti di sostegno delle viti, tra salti e rumori infernali, e le urla di chi già ci dava per spacciati. Impossibile raggiungere il pedale del freno o il freno a mano, lo sportello sbatteva in continuazione e tendeva a rimanere socchiuso o a chiudersi sugli stinchi di Gabriele e sul mio braccio. Stavo per gettarmi sotto la ruota posteriore per fare un ultimo tentativo di fermare l’auto, ma sembrò bastare il pensiero, perché a pochi metri dal burrone finalmente la macchina si fermò, finalmente domata da un insieme di filari, di pali e di nervi che si puntavano disperati.
Ci andò bene, anzi benissimo. Ma per mesi e mesi quell’esperienza ci segnò giorno e notte, diventando un incubo ricorrente durante le poche ore di sonno e qualcosa che risaliva davanti agli occhi anche in pieno giorno, come a riviverla.
Da quel giorno smise di giocare con i tergicristallo. La sua disperazione di quel brutto momento era impressa nei suoi occhi, ma non fu mai capace di raccontarla; a lui potrebbe accadere qualsiasi cosa e mai ce ne racconterebbe. Così come è incapace di descrivere un dolore, anche un mal di denti o il mal di pancia. Si limita a gridare e dobbiamo essere noi a cercare di individuare la fonte del suo disturbo.
Quando gli taglio i capelli, devo anzitutto attendere di avere la sua piena disponibilità, poi devo essere velocissimo perché poco sopporta anche il seppur piccolo rumore del tagliacapelli. La maggior parte delle volte è impossibile rifinirglieli a dovere, perché, se anche ci mettessi due minuti, non vede l’ora di liberarsi da quella che, evidentemente, ritiene una costrizione e anche se cerchiamo di mascherare la cosa, trasformandola in una sorta di gioco, con lui non funziona a lungo.
Con il suo appetito, poi, il pranzo e la cena hanno spesso un filo conduttore unico, fatto di mille richieste intermedie. E non è raro che cominci a reclamare il pranzo già dalle 11 del mattino. La cena invece è quasi sempre “doppia”, perché non si accontenta di un solo piatto. E quasi mai decidiamo noi cosa mangiare. Non sa cosa voglia dire “aspettare”, oppure “dopo” o “più tardi”. Non ti da il tempo neppure di preparargli un panino, figurarsi cosa bisogna patire per un pranzo e la cena.
Quando finalmente arriva anche per lui la stanchezza, va a letto, ma non senza qualche lamentela, e solo noi sappiamo quante notti in bianco ci ha fatto e ci fa passare. Il giorno successivo, ammesso che sia impegnato qualche ora a scuola, non ci rimane neanche il minimo residuo di energia e spesso finisce che recuperiamo un’ora di sonno, lasciando le cose da fare ancora in sospeso. Giornate che sembrano non finire mai, eppure scorrono una appresso all’altra e solo nel nostro animo sappiamo come pescare un minimo di forze per continuare.
Anche se quando esce è assistito da brave e competenti assistenti, il nostro pensiero corre spesso a lui, a sperare che stia tranquillo. L’autismo non ti lascia molte possibilità di distrarti, neanche quando sei apparentemente libero dalla sua morsa diretta. Se poi è associato a crisi di tipo epilettico, ancor meno ed evito di raccontare cosa significhi dover tenere calmo un ammasso di 85 chili di muscoli e nervi. Posso ancora farcela, per ora. Ma tutto questo ha un significato: rinunciare alla propria vita.
Vivo alla giornata, impossibilitato ad avere una professione fissa e stabile, ma nonostante tutto riesco ancora a dire che sto bene, meravigliosamente bene, a chi mi chiede «come va?». Eppure dentro di me so di aver rinunciato a quasi tutto ciò che colorava la mia esistenza, come la pittura e la musica. Undicenne iniziai a studiare la chitarra classica e il flamenco. Chi suona uno strumento del genere sa che bisogna dedicare ad esso otto ore al giorno di severa applicazione pratica. Ora non posso dedicarci che mezz’ora ogni tanto, a volte dopo mesi e mesi di totale abbandono, perdendo così il livello che avevo raggiunto in un’altra “vita passata”.
Una possibile carriera andata “affanculo”, una grande passione della quale non posso che recuperare poche briciole, qualcosa che ti lascia un vuoto interiore. E solo chi ama uno strumento musicale sa di che cosa parlo.
Stesso discorso per la pittura. E per mille altre cose. Sogni svaniti nel nulla quando la “sveglia dell’autismo” ha scelto di suonare in casa nostra. Ma mentre scrivo mi rendo conto che nessuna parola può rendere l’idea della nostra condizione e tutte le parole mi sembrano inutili fronzoli assolutamente insufficienti anche solo a dare una pallida idea, per lo meno a quelli che l’autismo non lo conoscono per niente, o a quelli che lo conoscono attraverso le errate propagande mediatiche.
Se ad esempio venissero qui le “iene” televisive, potrebbero vedere che cos’è l’autismo vero, vedere mio figlio e quella bestiale condizione che lo imprigiona. Probabilmente lo troverebbero – specialmente se la giornata è calda – completamente nudo e avrebbero modo di capire un po’ meglio, seppur solo nella misura di una millesima parte, che cosa sia l’autismo, quello autentico. E di conseguenza che cosa siano altri casi erroneamente ritenuti dello stesso genere.
Ma lo so, sono tempi strani, questi, in cui non si ragiona più, sembra una fatica della quale la stragrande maggioranza delle persone fa volentieri a meno. Non si osservano più neanche le sfumature, figurarsi il resto; ci si sofferma solo alla prima impressione, all’apparenza, al sorriso imbonitore del venditore. Le masse prendono per buoni i soliti luoghi comuni, perché “cosi fan tutti” e meglio non porsi troppe domande, meglio non uscire fuori dal recinto. In fondo, stanno tutti bene dentro la rete, nel rassicurante “pollaio”. E se la TV, i media e internet scambiano il dovere e il piacere per “eroismo”, non si sprecano di certo preziose energie neuronali per credere che non sia così.
Ma chi invece ha il coraggio di uscire dal “pollaio” e di vedere le cose dall’alto, nota le mille contraddizioni e vedo – colmo dei colmi – altri genitori di soggetti autistici definire come un “eroe”, un “genio” e un “esempio” da seguire quel padre che ha portato il figlio “autistico” in giro per il mondo. Bene, ma adesso che vi hanno dato l’esempio “fatelo anche voi”, cosa aspettate? Non ci vuole molto, comprate una moto e sedeteci vostro figlio o figlia e partite. Prendetevi appresso carte di credito ben nutrite, naturalmente, così scoprirete che potrete essere anche voi degli eroi…
Quanto vorrei che il grande Oliver Sacks [noto neurologo e scrittore inglese, che vive e lavora negli Stati Uniti, autore di vari libri di successo, basati sulle storie cliniche e umane dei suoi pazienti e delle loro patologie neurologiche. N.d.R.] dicesse la sua su certi “autismi”! Forse saprebbe meglio di tanti altri medici nostrani riconoscere le differenze tra Asperger, lesioni cerebrali, ritardi mentali, autismo e tanto altro. E saprebbe diagnosticare l’autismo di una società sempre più confusa, ottusa, chiusa in scatole preconfezionate.
Ma nel “pollaio” non bisogna diffondere troppi pensieri controcorrente, nel “pollaio” il dottore ha sempre ragione. Come nel caso di quel vecchietto, ormai dichiarato morto dal medico del paese, che si risvegliò nel lettino della sala mortuaria e si rivolse al becchino il quale, indifferente e ironico, rispose: «Coricati e zitto, non vorrai mica mettere in discussione ciò che ha detto il medico?…».
E con questa mia ristrettissima descrizione di ciò che è l’autismo vissuto in famiglia, sia chiaro, non voglio certo incolpare di alcunché quel simpatico duo genitore-figlio i quali, girando l’America, hanno fatto ciò che volevano – anche perché potevano farlo- e, ne sono sicuro, non per sentirsi dare titoli di “eroismo” o cose del genere.