Il valore della Vita Indipendente

È stata una delle poche persone in Toscana a prendere parte, sin dal 2005, alla sperimentazione dell’assistenza personale per la Vita Indipendente e autodeterminata e si racconta in questa ampia intervista, dove sottolinea anche tutti i pregi e le criticità di un’esperienza che continua ancor oggi, incidendo significativamente sulla qualità della sua vita

Elisabetta Giromella

Elisabetta Giromella

Interessata da distrofia muscolare, Elisabetta Giromella è stata una delle poche persone con disabilità che ha preso parte alla sperimentazione dell’assistenza personale per la Vita Indipendente e autodeterminata in Toscana. In quest’ampia intervista mette a disposizione il suo percorso personale, sottolineando i pregi e le criticità di un’avventura che continua ancora oggi e che incide significativamente sulla qualità della sua vita. La ringraziamo per avere accettato di raccontarsi.

Gentilissima Elisabetta, vuole presentarsi ai nostri Lettori e Lettrici?
«Presentare me stessa e la disabilità con cui convivo, per la prima volta, a persone che non mi conoscono, a mio parere può essere un’opportunità importante da cogliere, non tanto per acquisire quella certa visibilità che consente di uscire dall’anonimato, o dalla solita routine dove l’indifferenza per certe vite in salita, spesso, regna incontrastata; ma, piuttosto, per testimoniare un’esperienza personale forte, vissuta in tutta la sua interezza, come quella del percorso per fare Vita Indipendente attraverso l’autodeterminazione e il valore che quest’ultima assume quando ci si riferisce alle risorse interiori in generale e, nello specifico, a quelle di una persona con handicap.
Prima di arrivare a questo – definiamolo pure traguardo – c’è una vita, la mia, da raccontare (e, spero, senza annoiare più di tanto!), almeno a grandi linee. Una vita segnata precocemente dall’arrivo di una malattia, la distrofia muscolare, che negli Anni Sessanta non era facile da diagnosticare e da qui, l’inizio di una sorta di pellegrinaggio in vari nosocomi sparsi nella penisola, alla ricerca di un verdetto sicuro e, magari, decisamente meno infausto. Qualcosa che comunque lasciasse un barlume di speranza, un’alternativa positiva alla parola incurabile!
Per un’adolescente com’ero io, e come la maggior parte delle persone a quell’età, con la testa piena di sogni, di aspettative per il futuro, ipotizzare di combattere un “nemico oscuro”, di cui si ignora quanto e come colpirà, era fuori da qualsiasi logica e, pertanto, inaccettabile sotto tutti i punti di vista! La reazione fu quella di rifiuto; e sarebbe rimasta tale se non fosse arrivato il supporto di una famiglia che mise da parte atteggiamenti pietistici e commiserazioni varie, per lasciare il posto a un opportuno stimolo ad andare avanti, a crescere senza sottrarmi alle prove che la vita avrebbe imposto, ma con la consapevolezza che con la volontà si può molto, basta solo farsi guidare da lei. Non fu però così semplice! E negli occhi degli estranei, mentre mi guardavano camminare in quel modo così strano, leggevo spesso una curiosità che sfiorava quasi il morboso, e il senso di disagio aumentava, soprattutto quando il tempo della scuola superiore aprì la porta ai sentimenti da provare per l’altro sesso, questo sconosciuto!
Gli amori – come del resto le amicizie che ho vissuto – hanno sempre avuto un comune denominatore: durare poco, e scatenare sensi di inadeguatezza, fortunatamente superati in seguito, dopo gli anni dell’università, di un lavoro accettato più per la voglia di rendersi indipendente dalla famiglia, che per gratificazione professionale. Già allora germogliava in me quella caparbietà che si sarebbe radicata successivamente, per plasmare un carattere volitivo, poco arrendevole, meno che mai incline al compromesso.
È di quel periodo – siamo negli Anni Novanta – il mio ingresso a far parte dell’associazionismo organizzato e gestito da persone disabili. Ormai, ero una donna adulta a tutti gli effetti e piena di limiti, sì perché il nemico oscuro, o per meglio dire, la “carceriera” (appellativo che uso, eufemisticamente, quando mi riferisco alla distrofia), aveva chiesto un tributo alto, anche in termini di adattamento. L’uso della carrozzina per spostarsi, l’impossibilità di guidare ancora la macchina, l’aiuto degli altri per compensare ciò che, lentamente, non ero più in grado di fare, l’esigenza di non pesare sulla famiglia, in particolare dopo che mia madre era venuta a mancare e, con lei, il punto di riferimento più significativo… Gli scenari stavano cambiando e anch’io dovevo adeguarmi al cambiamento, ma, probabilmente, da sola. Costruire un rapporto affettivo più impegnativo, una convivenza, non faceva più parte di un immaginario popolato di speranze e desideri che mi aveva accompagnato a lungo. Confrontarmi con persone disabili con cui condividevo molto, fu una fra le mie priorità che, da subito, incrementò la voglia di combattere per l’affermazione dei diritti negati, comprese le battaglie per l’abbattimento delle barriere architettoniche e di altri ostacoli, non visibili ma ugualmente difficili da scardinare.
Donna in carrozzina fotografata di spalle con le braccia spalancateDurante le riunioni, ricordo che discutevamo anche di Vita Indipendente, di questo stile di vita venuto da lontano e approdato da qualche anno in Italia e anche in Toscana (dove vivo). Devo ammettere, in tutta sincerità, che all’inizio ero piuttosto scettica, pensavo che ci fosse una contraddizione di fondo suffragata dalla domanda ricorrente: com’era possibile che una persona dipendente dagli altri per tante o tutte le sue necessità, potesse fare Vita Indipendente? Non ci volle molto a trovare la risposta! E fu così illuminante, da spingermi a rivendicarla sempre e comunque, per raggiungere il suo giusto riconoscimento nel variegato mondo delle politiche sociali, sovente miope di fronte a innovazioni di questo tipo».

Lei ha fatto parte del ristretto gruppo di persone (circa ventotto) che hanno preso parte alla sperimentazione dell’assistenza personale per la Vita Indipendente e autodeterminata in Toscana. Dopo questa fase, durata tre anni, c’è stata un’ulteriore tappa – la cosiddetta “fase pilota” – di durata annuale, con il coinvolgimento di un maggior numero di persone con disabilità (quasi quattrocento). Quali sono le sue osservazioni in merito a questo percorso?
«Prima di rispondere più compiutamente alla sua domanda, voglio soffermarmi sulla sperimentazione, iniziata nel 2005 e terminata nel 2008. La Regione Toscana, con una Delibera del 2004, dette inizio alla suddetta sperimentazione in varie Zone/Distretto della Toscana. Fu stabilito un ammontare di stanziamenti, non particolarmente cospicuo, affinché ogni partecipante potesse pagare l’assistente/i personale/i. Inoltre vennero introdotte delle schede/questionario che ogni sperimentatore doveva compilare per monitorare periodicamente l’andamento del proprio progetto.
Quest’ultima operazione presentò delle notevoli criticità, soprattutto per le domande contenute nelle schede, poiché non erano pertinenti allo scopo per cui servivano e, per giunta, alcune violavano addirittura la privacy! A seguito di ciò, verso la fine del 2008, insieme a un’amica, anche lei inserita nella sperimentazione, decidemmo di elaborare una bozza di regolamentazione e creare così un gruppo di lavoro formato da quelle persone ex sperimentatrici, che condividevano la nostra idea. Iniziò quindi un percorso che gettò le basi per un confronto con i vari Referenti Regionali, finalizzato alla stesura del testo delle Linee Guida per i progetti di Vita Indipendente.
La cosiddetta “fase pilota”, disciplinata appunto nelle Linee Guida, rappresentava una tappa di transizione che precedeva l’approvazione dell’atto d’indirizzo, cioè la tanto auspicata messa a regime. Questa fase – se da una parte ha consentito l’ingresso di un maggior numero di soggetti – dall’altra ha registrato un redistribuzione degli stanziamenti, seguendo la logica del “dare un po’ meno, ma a più soggetti”, con la conseguenza di penalizzare coloro i quali già percepivano una cifra insufficiente per fronteggiare le specifiche esigenze. Inoltre, nella mia zona, quella di Pistoia e provincia, come purtroppo anche in altre, si sono verificati e, si stanno verificando, notevoli ritardi nel pagamento di quanto dovutoci, con i disagi che è possibile immaginare. Insomma, aspetti negativi da evidenziare e correggere!».

Finalmente, dallo scorso febbraio, attraverso un atto di indirizzo (la Delibera della Giunta Regionale Toscana n. 146/12), anche in Toscana la Vita Indipendente è entrata nella cosiddetta “fase a regime”. In quale misura questa nuova disciplina risponde alle sue aspettative?
«La normativa contenuta nell’atto di indirizzo non risponde appieno a quanto io, e il gruppo di lavoro di cui sono divenuta la portavoce, avevamo proposto durante l’ultimo incontro con i Funzionari Regionali che si occupano della stesura definitiva del documento. Riassumerei le osservazioni sostanzialmente in due punti: 1) Il tetto massimo dello stanziamento pro capite, pari a 1.800 euro, è una cifra troppo bassa per chi necessita di molte ore di assistenza per poter fare Vita Indipendente; 2) l’introduzione dell’acquisto dei voucher, per pagare gli assistenti personali occasionali, crea, a mio avviso, un’ulteriore burocratizzazione e non ha una valida ricaduta pratica. Lo stesso discorso vale per il fatto che le spese non soggette a rendicontazione non possono superare il 10,% della somma concessa, un margine estremamente ridotto».

Vuole dirci qualcosa del suo progetto di assistenza personale? Per quali attività lo utilizza?
«Poiché sono una persona che ormai da anni ha una disabilità importante, il mio progetto è finalizzato a soddisfare tutte le esigenze personali che spaziano dagli atti quotidiani, tipo alzarsi dal letto, vestirsi, i trasferimenti dalla/nella carrozzina e altro ancora, fino ad arrivare ad azioni da svolgere fuori dell’ambito domestico, come le uscite, la partecipazione alla vita delle Associazioni di cui faccio parte, il tempo libero».

Quali pensa siano gli aspetti del progetto più complessi da gestire?
«Per quanto mi riguarda, trovo complesso e non sempre facile, stabilire delle regole con i propri assistenti, quando si entra nella sfera intima, dove è implicito il contatto fisico e la manualità di chi deve sostituirsi al soggetto nell’assolvimento di una funzione mancante».

La somma che le corrispondono è sufficiente a coprire le sue esigenze di assistenza, o deve integrare con fondi propri?
«Ancor prima che fossi inserita nella sperimentazione, provvedevo a pagarmi l’assistenza e la cosa mi creava delle difficoltà dal punto di vista economico. La situazione è migliorata quando sono entrata nella rosa degli sperimentatori e ho potuto disporre di una cifra maggiore, ma comunque non del tutto sufficiente a coprire il totale delle spese previste per le ore di assistenza, che sono aumentate con il trascorrere degli anni e il progredire della malattia.
Giovane in carrozzina spinto in salita da un assistenteSpero, che il mio nuovo progetto – presentato entro la fine dell’aprile scorso – dove per altro chiedo il riconoscimento della cifra massima, venga accolto positivamente, perché integrare sempre destabilizza e penalizza le risorse destinate ad altri scopi. Se ciò non avverrà, mi vedrò costretta a fare ricorso!».

Vuole raccontarci qualcosa del suo rapporto con gli/le assistenti personali con cui ha avuto a che fare?
«Da quando è partita la sperimentazione, oltre sette anni fa, ho la stessa assistente, una persona di origine ucraina, con la quale allora stipulai un contratto che è stato integrato negli anni, con l’aggiunta di vitto e alloggio, e che offre la garanzia di una maggiore presenza nell’arco della giornata, esclusa la notte. Con lei ho un rapporto, che potrei definire di “odio/amore” per certi suoi picchi caratteriali, bilanciati, comunque, da un servizio rispondente appieno alle specifiche necessità, che non sono semplici da soddisfare. Usufruisco anche di una persona italiana che copre solo poche ore di sostituzione alla settimana, e, considerata la nostra non recente conoscenza, posso affermare che c’è sempre stata intesa fra noi».

In che modo fare Vita Indipendente ha influito nei suoi rapporti con gli altri (familiari e non)?
«Per quanto riguarda la famiglia, vivendo da tempo con un genitore anziano, grazie al progetto di Vita Indipendente, ho potuto garantirgli maggiore libertà per coltivare i suoi interessi e alleggerire il carico di spese che prima doveva sostenere per aiutarmi.
Nei miei rapporti interpersonali ho incentivato la partecipazione a eventi o incontri dove si intrecciano con più facilità le relazioni umane».

Le sembra che tra le persone con disabilità che abitano in Toscana la cultura della Vita Indipendente si sia abbastanza diffusa, o pensa che essa sia ancora poco conosciuta e/o sottovalutata? Se propende per la seconda opzione, come ritiene che si possa promuoverne la conoscenza e la diffusione?
«Credo che con l’uscita del bando relativo alla “fase pilota” si sia assistito a una diffusione del concetto di Vita Indipendente come alternativa ad altri tipi di percorsi assistenziali a favore delle persone disabili capaci di autodeterminarsi, e questo grazie anche alla presentazione esplicativa che si trova all’inizio del testo normativo, dove in modo chiaro si puntualizza che cosa s’intende per Vita Indipendente e su quali punti cardine si fonda. In Toscana, comunque non mi risulta che sia molto conosciuta tra le persone disabili, nonostante la presenza di Associazioni che la promuovono a 360 gradi.
C’è anche da aggiungere, che non tutti se la sentono di mettersi in gioco fino in fondo, tanto da essere i veri protagonisti della propria vita partendo dalla scelta degli assistenti. Sono del parere che la diffusione potrà attuarsi solo se il messaggio verrà veicolato nel modo giusto, a partire proprio da chi ha fatto o sta facendo questa esperienza e ne comprende il valore intrinseco».

Intervista già apparsa nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “Il valore intrinseco della Vita Indipendente”, e qui ripresa, con alcuni lievi riadattamenti al contesto, per gentile concessione.

Il Gruppo Donne UILDM
13 eventi e altrettante pubblicazioni della collana Donna e disabilità, un centinaio tra articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, circa 80 segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, più di 450 segnalazioni bibliografiche e circa 600 risorse internet schedate: parlano da sole le cifre del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio ambito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto attualmente da Francesca ArcaduAnnalisa Benedetti, Valentina Boscolo, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Francesca Penno, Anna Petrone, Fulvia Reggiani e Gaia Valmarin) ha deciso di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i suoi obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di un repertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità.
Recentemente il Gruppo Donne UILDM ha anche ricevuto da Decima Musa Caravaggio (Associazione Culturale Europea-Compagnia Teatrale) il Premio Decima Musa«per il valore di un’attività finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità, che sottolinea e affronta il problema specifico e la situazione delle donne disabili».Il Gruppo Donne UILDM è anche su Facebook (cliccare qui).

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