Qualche giorno fa girava su Facebook l’immagine qui a fianco riportata, che raffigurava una persona in carrozzina davanti a una pizzeria in un bel pergolato sopraelevato e con due gradini da superare. Nel fumetto si dice chiaramente: «Anche a me piacerebbe ogni tanto al sabato sera uscire per andare a cena o per mangiare una pizza».
Leggendola mi è venuta in mente una battuta – purtroppo troppo vera per far sorridere: un abile quando esce a cena pensa «vado da X dove si mangia un magnifico risotto con l’ossobuco o da Y dove fanno le vera pizza napoletana?». Il dubbio della persona con disabilità è un po’ diverso: «Vado da Gigi dove c’è la rampa e un bagnetto accessibile, ma si mangia male oppure vado da Antonio dove si mangia bene, ma non riesco a entrare?». Spesso non si ha alcuna opportunità di scelta.
Oggi, 28 giugno 2012, che dovrebbe coincidere ufficialmente con l’insediamento del Comitato per il Turismo Accessibile presso il Ministero, mi si permetta un po’ di polemicuzza e un’affermazione: anch’io voglio essere considerato come un vero cliente.
I miei soldi sono “diversamente validi”? Non credo. Un cambio di linguaggio è a questo punto doveroso: una persona con disabilità spende per un risotto la stessa cifra di chiunque altro, occupa lo stesso spazio fisico… e, parimenti, fa girare l’economia, a patto che sia invogliato ad uscire senza timore. Quindi perché viene trattato come un “paria”?
Certo, parlare di business nel mondo della disabilità rischia di far venire la pelle d’oca, pone immediatamente sulla difensiva per la troppa abitudine di legare il concetto di affari con lo sfruttamento delle difficoltà altrui per fare soldi. Talvolta, però, è utile abbassare le difese per comprendere un altro passaggio: la persona con disabilità è un cliente. È un avventore per un ristorante, è un acquirente per il supermercato… è un ospite per un albergo.
Ci pensavo confrontandomi con i responsabili di due aziende – Givi, società editrice dell’agenzia di stampa GuidaViaggi e l’agenzia di viaggi lp tour – e con quelli di un’associazione, l’AUS (Associazione Unita Spinale) Niguarda (che già dispone di uno sportello turismo e di un corner per l’abbattimento delle barriere architettoniche), i quali lanciano in questi giorni Easy Hotel Planet, un progetto di verifica delle strutture alberghiere milanesi, attraverso “sperimentatori volontari” con disabilità, che prevede la valorizzazione delle informazioni raccolte attraverso la pubblicazione di una guida e di un sito.
Un progetto utile, ma più proseguivamo nel confronto, più sassolini s’infilavano nelle mie scarpe. Non a causa del progetto, non mi si fraintenda, ma per colpa di una società che continua a non voler vedere le persone con disabilità.
Partiamo da qualcosa che per natura dovrebbe essere obiettiva, i numeri. Difficile sbagliarli: tot certificati di invalidità uguale a tot persone con disabilità. Invece le percentuali variano da un 5% della popolazione italiana a un 13%, se si considerano come handicap piccole o grandi insofferenze alimentari e allergie. I “conti della serva” mi fanno dire: si passa da 3 a 7,5 milioni di italiani disabili, una “forchetta” – come viene indicata in gergo economico una differenza come questa – di oltre 4 milioni e mezzo di persone.
Ci sarebbe poi anche da dire che i dati più aggiornati sono di circa sei anni fa e che il sito ufficiale dell’Istat, Disabilità in cifre.it, è bloccato da almeno un paio di mesi.
Secondo sassolino – meglio sarebbe dire riflessione – che parte appunto dal progetto, l’ultimo in ordine cronologico di una serie: può un’idea che mescola profit, no profit ed esclude il settore pubblico stare in piedi? Gli organizzatori dicono di sì, a patto di definire bene gli àmbiti di intervento delle due categorie: alla ONLUS AUS Niguarda il compito di verificare e di «diffondere una cultura dell’accessibilità», alle due società private (Givi e lp tour) il compito di diffondere le notizie, formare il personale delle agenzie di viaggio e promuovere le strutture in Italia e all’estero.
Me lo domando perché in periodi di tagli ai contributi pubblici, imprenditori e promotori di iniziative potranno attingere sempre meno dalle casse pubbliche e quindi, per poter avviare nuove iniziative, dovranno trovare formule di collaborazione innovative.
Va detto che di iniziative ne sono già nate nei mesi scorsi e che stanno riscuotendo un certo successo. La prima che mi viene in mente è Village for all (V4A), che si propone come marchio di qualità internazionale del turismo accessibile, per l’inclusione turistica e la promozione dell’attività sportiva per tutti.
Qualche settimana fa ero a cena a Gitando.all [manifestazione che si tiene in marzo alla Fiera di Vicenza, N.d.R.] con il presidente di Village for all Roberto Vitali, che mi raccontava con soddisfazione di essere riuscito a radunare nel primo giorno della manifestazione oltre una cinquantina di buyer internazionali (sommariamente quei grandi operatori che comprano l’offerta turistica per poi rivenderla nei propri cataloghi), ma anche di essere riuscito ad esportare l’idea in Brasile dove l’ENIT, l’Agenzia Nazionale per il Turismo, qualche giorno fa ha organizzato l’evento Italia para Todos, con le mete italiane più accessibili per incontrare le richieste di 650 agenzie.
Ultima riflessione, ma tante altre – per il momento – le metto nel cassetto. Queste iniziative portano, accanto a un miglioramento della fruibilità delle strutture, anche a un impiego e a posti di lavoro per chi è invisibile? Vi lascio con la risposta di Paolo Bertagni di Givi: «Dopo una fase iniziale in cui ci avvarremo dei volontari dell’AUS Niguarda, verranno coinvolte anche persone con disabilità che verranno remunerate per il lavoro svolto da una società in via di costituzione».