«Desidero che mio figlio diventi famoso perché più persone possibile possano conoscerlo e abituarsi a lui. Abituandosi a lui, prendendo confidenza con le sue stranezze e con i disagi, potranno farci meno caso, potranno averne meno paura, insomma Andrea potrà venire incluso più facilmente nella società. Andrea e chi, come lui, si trova in una condizione di autismo»: sono le parole di Franco Antonello, l’uomo che due anni fa ha contattato lo scrittore Fulvio Ervas per trasformare un lungo viaggio in un romanzo [“Se ti abbraccio non aver paura”, Marcos y Marcos, 2012, N.d.R.], l’uomo che nel 2009 ha attraversato le Americhe in groppa prima a una moto e poi al fato, insieme al figlio Andrea nel suo diciottesimo anno d’età.
Queste sue parole e il commento di Ervas sull’atteggiamento di un padre che tutti dicono assomigliare a Ligabue – e in effetti Franco Antonello a Ligabue ci assomiglia per davvero – mi hanno fatto venire in mente un altro padre altrettanto capace di catturare l’attenzione dei media. Ma prima di arrivarci vorrei citare il commento di Ervas, che durante l’intervista esclusiva che ci ha rilasciato, ha dichiarato: «A una situazione eccezionale Franco ha dato una risposta eccezionale. Non deve essere il percorso di tutti ma se lui ha la personalità, gli strumenti anche economici, l’entusiasmo e il carisma per farlo, non vedo perché dovrebbe trattenersi. Tanto più che funzionano in TV, sia Andrea che Franco sono telegenici e intensi abbastanza da “bucare”».
Ecco, quello che mi ha colpito è che la frase di Antonello e tutti i passaggi del commento dello scrittore veneto mi pare si possano applicare pari pari a un altro padre del momento, che oltretutto è veneto pure lui. Antonello è di Castelfranco Veneto e Ruggero Vio è di Mogliano Veneto. Due trevigiani, insomma. Qualche mese fa, per intervistare la figlia di Ruggero, l’ormai celebre Beatrice “Bebe”, ho avuto modo di incontrare anche lui.
Vio è un imprenditore, i soldi ce li ha, così come ce li ha Antonello, ed è innamorato della figlia così come Franco ama Andrea. Orgoglio, ammirazione, fascino, desiderio di protezione, desiderio che siano felici. Caratteristiche di tutti, o gran parte, degli amori genitoriali. Ma qui c’è la componente particolare dell’entusiasmo, della voglia di stare bene, di volere il bene, di concentrarsi sul bene, di adoperarsi per realizzare il bene. Qui c’è intenzione di leggerezza. Questa è la differenza che personalmente mi ha conquistato e che ho deciso di sottolineare con questo pezzo.
Ruggero Vio è il padre di Bebe, la ricordate? Ne abbiamo scritto più volte in Superando. Quindici anni, nome per intero Beatrice, capelli biondi, occhi azzurri, sorriso contagioso e monello, sguardo forte, spadaccina di talento. Il 18 maggio scorso, tanto per citare una delle ultime, ha partecipato alla sua prima Coppa del Mondo di scherma in carrozzina a Lonato (Brescia), ottenendo il secondo posto. Chi l’ha battuta? La schermitrice di Hong Kong medaglia d’oro alle Paralimpiadi di Pechino del 2008. E ora sarà tedofora alle Paralimpiadi londinesi, troppo giovane per qualificarsi, ma ha lo stesso conquistato un ruolo di primo piano, catturando l’attenzione dei media nazionali: perché Bebe è la prima al mondo a tirare di scherma senza braccia né gambe.
Quando le avevamo chiesto come ci fosse riuscita, ci aveva parlato di suo padre. Bebe, qualche anno fa, è stata amputata ai quattro arti in seguito a un’improvvisa malattia. Tirava di scherma da prima. Mentre era ancora in ospedale e affrontava un cambiamento sconvolgente nella sua vita, chiedeva al padre di trovare il modo di farla tornare spadaccina. E suo padre si è dato da fare.
Capito? Non ha detto: «No, è impossibile, non esiste protesi al mondo», ha detto: «Una protesi la inventiamo». Attualmente Ruggero si è talmente appassionato da aver messo a punto, con l’aiuto dei tecnici, alcuni prototipi di protesi per braccio adatti allo sport che ama sua figlia. E quando la protesi si rompe, è lui che l’aggiusta.
La storia di Bebe è finita sui giornali, in televisione sulle reti principali, e ora che arrivano le Paralimpiadi, si tornerà senz’altro a parlare di lei. Dietro a tutto questo c’è Ruggero, un padre che la sostiene, che ha fondato un’associazione incentrata su di lei (Art4Sport ) e che crede che la forza e l’indubbio carisma della figlia facciano bene a molti e facciano bene anche a lei, che invece di essere scivolata ai margini dopo la malattia, è finita al centro della scena, amata, contesa, ammirata. Un padre che secondo me crede anche – non so in quale misura – che se in tanti la vedono in televisione e durante gli incontri pubblici, poi se la beccano per strada la fisseranno di meno, saranno più abituati al suo corpo con le protesi. Al suo e a quello di altri come lei.
Certo, anche qui ci sono dei rischi, e sono alti. Gli stessi che corre Andrea Antonello. Ma come Franco, anche Ruggero è un uomo intelligente e sa di essersi assunto un rischio, come ha detto Ervas nell’intervista, «correggerà il tiro se e quando serve».
Così eccoli gli elementi che hanno portato a due miscele simili, entrambe esplosive. Una disabilità fisica e una psichica portate da due “modelli” telegenici al punto giusto, e soprattutto carismatici. Dietro, due padri che hanno scelto consapevolmente di fare della disabilità del figlio un punto di forza, la porta d’ingresso – inevitabile – per una vita ricca e stimolante. Due uomini abbienti, già quindi abituati al successo nella vita privata. Chiaro che qui si parla di “fuoriclasse”. E li segnalo con la stessa attitudine di Ervas, e cioè non per dire che tutti dovremmo essere così, ma per dire grazie a figure così, per dire che – grazie a figure così che vanno avanti “a sfondamento” – la disabilità diventa un po’ più “masticata” dal grande pubblico.
Accolgo e condivido però anche la considerazione di chi dice che i mass-media e il cinema si interessano di disabilità solo in caso di tragedie eclatanti o, al contrario, quando raccontano storie straordinarie, vincenti. Ed è quest’ultimo il nostro caso. La disabilità di Bebe e Andrea è “carina” (non tutti i disabili sono telegenici) e le loro sono storie “vincenti” (non tutte le persone con disabilità – come non tutte le persone in genere – ce la fanno a “vincere”).
Nei media e al cinema, in questo modo la disabilità diventa un ostacolo da superare, non è osservata in sé e per sé e viene recepita all’interno di un discorso generale, buono per ogni cosa nella vita: se metti le “marce giuste” e trovi il modo giusto di interpretare la tua realtà, potrai farcela, potrai accettarti, essere felice o addirittura vincente, diventare Bebe, Andrea o Pistorius. È la parabola della maggior parte dei film holliwoodiani indipendentemente dal soggetto.
È vero, verissimo, che in questa comunicazione manca il contenuto della disabilità e che Bebe non è solo quella che è riuscita ad andare a Londra, ma è anche l’adolescente in carrozzina che se trova le scale diventa “diversa” da chi ha due gambe che funzionano, perché ha incontrato una barriera architettonica. E allora le barriere bisogna abbatterle e c’è chi spende la vita in battaglie del genere.
Ancora, Bebe e Andrea forse vorranno un assistente personale, vorranno rientrare in un progetto di Vita Indipendente. Bene, servono finanziamenti pubblici, e ci sono associazioni che si impegnano quotidianamente a interagire con gli Enti Pubblici e con il Governo per ottenere il rispetto dei diritti umani delle persone con disabilità. E continuando ancora, è vero che ci sono disabilità più gravi, più difficili da gestire, dove c’è poco da viaggiare o da fare gli spadaccini ed è vero che la televisione non trova interesse nel raccontarle.
Ma ci sono due osservazioni che ho cercato qui di fare. La prima è che la funzione sociale delle storie di Andrea e Bebe non mette a rischio l’operato chi si dedica all’approfondimento dei contenuti. Cioè, non è una questione di chi “ha ragione” o chi “ha torto”, se un modo è migliore dell’altro, come si profila a volte nel dibattito all’interno del mondo della disabilità. Secondo me è più che altro una questione di attitudini personali e di funzioni sociali diversi.
Antonello e Vio sono in grado di sostenere le loro scelte e le eventuali critiche che si tirano addosso. Soprattutto, ed è questa la cosa più importante, sono dei riferimenti per i figli. La figura del padre, nella nostra società che delega molto alla madre, non è sempre così solida. Ed è bello sapere che ogni tanto può esserlo e che alcuni figli possono godere dei frutti – dolci e amari – di tanto coraggio.
Ed è questa la mia seconda e ultima osservazione: sull’atteggiamento. Che le storie vincenti al cinema siano spesso retoriche e ci scivolino via di dosso come acqua di rose è vero, ma che l’atteggiamento mentale con cui ognuno affronta la propria vita determini i fatti stessi che la comporranno è altrettanto vero.