E se non c’è la salute?

di Roberto Rosso*
Di fronte al proverbio che recita «Finché c’è la salute...», sarebbe forse meglio dire «finché c’è la qualità della vita»… E in ogni caso, «nel mondo della standardizzazione - scrive Roberto Rosso -, dove noi disabili reclamiamo la possibilità di esistere, combattendo i vari luoghi comuni, è giusto sperare in un futuro privo di barriere e di confini, senza che però ciò avvenga a scapito di ciò che ci rende inesorabilmente ciò che siamo»
Auguste Rodin, "Le Penseur"
Auguste Rodin, “Le Penseur”

Quanti di voi avran sentito il vecchio proverbio Finché c’è la salute... La salute viene spesso considerata come il primo diritto inalienabile della persona, concetto, questo, che fonda ancora oggi il nostro impegno di sanità pubblica. Da questo proverbio la salute viene vista come prioritaria rispetto ad ogni altro valore cui ciascuno possa orientare la propria vita: essa viene prima della felicità, della ricchezza, del potere, con il rischio che essa diventi un “a priori” che mette d’accordo le diverse scelte valoriali.
Ma coloro che non hanno la salute? Coloro che non la possono avere, dovendo convivere ogni giorno con limitazioni e problemi? Per i disabili questo proverbio suona come una presa in giro. Che fare?
Alcuni, pensando di potersela cavare cavillando sul concetto di salute, lo rattoppano in modo che anche un disabile in condizioni stabili e non sofferenti possa definirsi in salute. Possibile, ma non credo sia utile a nessuno utilizzare sofismi: questi artifici servono solo ad alimentare ipocrisie.
Penso sia meglio invece cercare qualche altro comun denominatore che possa costituire l’a priori delle scelte di vita. Non è una ricerca semplice, ma il concetto di “qualità della vita”, ad esempio, può fare al caso nostro. In effetti è possibile che un disabile abbia una ottima qualità della vita pur non avendo la salute. C’è un rischio però: chi decide della qualità della vita? Come decide? E ci si può “educare” a una simile scelta?

Rispondere alla prima domanda è semplice: ove possibile è solo il disabile in diritto di decidere di se stesso. Sembra una cosa ovvia, ma non lo è poi tanto, sia perché non sempre il disabile è in grado di decidere rettamente, sia perché spesso ci si deve scontrare con le “naturali ingerenze” di chi del disabile si prende cura. Di soluzioni non penso sia utile parlare, penserei piuttosto a una tendenza ad adeguare il più possibile la vita ai desideri del singolo.
La seconda domanda, invece, è più complicata. Come decidere? È chiaro che se la decisione viene presa a partire dagli standard tarati per gente in salute, ci si dovrà scontrare con un gap difficilmente colmabile. Il concetto di qualità dovrebbe invece essere “cucito addosso” come un vestito di sartoria, ognuno dovrebbe capire cosa vuol dire per sé qualità della vita, in ragione delle opportunità e della situazione vissuta e, in base a quello, decidere. In teoria questo è un buon consiglio valido per tutti, ma è con i disabili che esso raggiunge caratteristiche di massima importanza e urgenza.
La terza domanda è la più importante: si può educare alla scelta? Questo tipo di educazione non può prescindere da un esame dei desideri che insegni a distinguere il possibile dall’impossibile, ma non deve dimenticare nemmeno la complessa dialettica tra mezzi e fini, insegnando che non esistono solo mezzi standard per raggiungere fini comuni. È dunque, in ultima istanza, un’educazione ai mezzi in cui ciascuno impari ad avvalorare le proprie potenzialità.
Ma è questo ciò che avviene nella società di oggi? I disabili sono educati a pensare la propria situazione come un dono da avvalorare semplicemente inventandosi o seguendo strade poco battute da altri?
Mi piacerebbe pensarlo, ma sono scettico. Tutti i termini usati per definirci sono modellati infatti a partire dalla società di abili. Un solo avverbio tra le varie definizioni mi può star bene: il “diversamente”. In effetti può essere questa la chiave: ognuno di noi deve imparare ad essere “diversamente” se stesso. Questo mi sta bene. A una condizione, però: che non valga solo per i disabili ma per ciascun essere umano…
Se avete seguito il mio discorso, capirete che in questo senso il poter essere “diversamente” è un pregio dell’essere umano, un fatto antropologico che richiama all’arte, alla poesia. Essere “diversamente” significa fare della propria specificità un valore che ci rende unici, della diversità un principio di individuazione che ci rende unici, rari, pregiati.

Nel mondo della standardizzazione, la disabilità testimonia un processo inverso e antitetico. Essa reclama la possibilità di esistere, combattendo il mondo di luoghi comuni che vuole omologarci a uno standard. Certamente auspichiamo un futuro in cui si abbattano barriere e confini, ma dobbiamo lottare affinché ciò non avvenga a scapito di ciò che ci rende inesorabilmente ciò che siamo.

Filosofo della Retorica.

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