«Non è colpa mia se tu sei disabile, non ti devo nulla»: queste parole mi sono state rivolte da un soggetto certamente poco cortese. Nella loro scortesia, però, esse hanno avuto il merito di suscitare la mia vena filosofica.
Anzitutto la disabilità viene legata al concetto di colpa e la colpa in questo caso può essere intesa in almeno tre modi. Nel primo caso è qualcosa di socialmente riprovevole, il “portatore della colpa” è qualcuno che dev’essere bandito dalla società, emarginato, segregato. La colpa può essere poi intesa anche in senso morale: c è qualcosa di moralmente riprovevole nell’essere disabile, che giustifica la presa di distanza. Infine, la colpa può essere legata a un danno subito: la disabilità è un danno per il disabile, e in quanto tale necessita di un “colpevole”, aggressore-medico-genitore-Dio, vanno tutti bene, l’importante è che il colpevole non sia l’abile di turno.
Siccome però il “colpevole” spesso non si trova, si compie un passaggio pericoloso: il disabile diventa colpevole. Colpevole di cosa? Si può intendere in due sensi: da una parte è colpevole della disabilità stessa («se è così ci sarà un motivo… quindi è colpevole»), dall’altra è colpevole di esistere nella vita dell’altro, costituendo un motivo di disagio e di disturbo.
Quest’ultimo aspetto è più interessante: la disabilità diventa per l’Altro un’esperienza autentica, che lo chiama, che lo pro-voca. Il disabile non esiste semplicemente, è un evento che provoca. Non può essere ignorato. Il disabile mette chi incontra di fronte alle intime repulsioni che ognuno di noi – per cultura, per educazione, per stima di sé – vorrebbe sopite. Il percepire intimo disagio ci fa sentire più brutti di quanto vorremmo: questa è una colpa di cui il disabile è profondamente “colpevole”.
Quella reazione, poi, seppur poco educata, ha il pregio di essere palese, scoperta. Da quello stesso atteggiamento derivano invece, per mia esperienza, altre due reazioni che sono più pericolose, perché mascherano questa repulsione dietro finti principi di accoglienza.
La prima è quella di quanti “spronano” il disabile più del lecito. In questa eccessiva richiesta a combattere la propria condizione, c’è il rischio che si celi la mancata accettazione della disabilità da parte dell’abile. L’abile non riesce ad accettare la dimensione autentica e provocatoria della disabilità e dunque oppone al disabile una richiesta ossessiva affinché cambi una situazione che è l’abile stesso a non riuscire ad accettare.
Altro atteggiamento è invece quello del “dono”, l’offerta d’aiuto unidirezionale. L’abile offre quanto decide di voler dare, senza che vi sia alcuna richiesta o utilità del gesto. In questa situazione, l’offerta al disabile – benché inutile e non richiesta – mette al riparo la coscienza dell’abile dalla consapevolezza del proprio intimo rifiuto. In questo caso l’abile è disposto a fare qualunque cosa purché il disabile non chieda. Un’eventuale richiesta di aiuto, infatti, riportando l’abile nella dimensione autentica e provocatoria da cui vuole fuggire, risulterebbe intollerabile, ma grazie a quelle inutili offerte può ora essere bollata come capriccio eccessivo.
Insomma, c’è il rischio che una morale buonista di facciata – ormai diventata sterile luogo comune – nasconda sentimenti di tutt’altro tipo, che andrebbero esplicitati invece di essere repressi.
Se si affrontasse meglio il tema della percezione dei disabili in una società di abili, senza liquidarlo con luoghi comuni di facciata, si riuscirebbe ad affrontarlo con maggiore efficacia, favorendo un’integrazione reale.
Spero infine che questo sia stato solo uno spiacevole inconveniente e non un segnale di un’egoistica volontà di emarginazione che sembra potersi affermare nella società dopo i recenti tagli ai servizi, con la scusa della “crisi”. Se infatti questa logica montasse dal basso, fino ad arrivare ai Legislatori, si potrebbero prevedere tempi durissimi per i disabili.