Pensate a una vostra giornata in cui la mattina vi capiti di incontrare sul pianerottolo il vostro vicino di casa che esce in tenuta ginnica per andare a correre e di provare un misto di ammirazione e invidia per quanto riesca a tenersi in forma pur avendo superato gli “anta”. Poi, la stessa sera, immaginate di andare a una cena di lavoro e notare che il marito di una vostra collega che conoscete poco sia leggermente sovrappeso. Gli direste forse: «Guarda che il mio vicino di casa si tiene in forma con una corsetta mattutina…»? Credo di non sbagliare se dico che non vi sognereste nemmeno di pensarlo, nemmeno di accostare i due eventi. Perché? Perché sarebbe un non-senso, sarebbe lampante per tutti che si tratta di persone diverse, con vite diverse e obiettivi diversi.
Per i disabili, invece, càpita qualcosa di molto strano. Abbiamo già visto – su queste stesse pagine – che la disabilità è un evento autentico che chiama l’altro a una risposta, lo “provoca”. Con i disabili non si può mediamente rimanere indifferenti e si deve rispondere.
A questo punto è possibile suddividere gli “abili” in diverse tipologie a seconda del loro modo di reagire all’imbarazzo dell’“evento disabile”. Ogni disabile ha una personale casistica, fondata sull’esperienza, mi limiterò dunque a segnalare i tipi più comuni.
Il simpatico
Il simpatico è un tipo interessante, tenta di uscire dal proprio imbarazzo con battute terribili come: «Bella la tua fuoriserie, quando puoi prestamela che ci voglio fare un giro». Personalmente questo è il tipo che mi imbarazza di più, ma in fondo è anche quello che più mi incuriosisce. Resto sempre interdetto tra il “mandarlo a…” e il compatirlo e finisco troppo spesso per cedere alla seconda possibilità.
La sorridente
Per lo più una donna, con un sorriso da imbecille e che ti parla scandendo le parole come di fronte a un neonato. È evidente che stia dubitando delle tue facoltà mentali ed è impossibile che io non dubiti contestualmente delle sue. Non è infrequente che questa persona cerchi un contatto fisico. La motivazione è molto spesso un fatto egoistico, la “sorridente” ha bisogno di dimostrare a se stessa di essere riuscita a relazionarsi a un disabile, mettendo in pratica un esercizio di pietà del quale nella sua testa possa essere contenta di sé. Annovero in questa tipologia la classica “vecchietta con caramella”. Non avete idea di quante caramelle io abbia ricevuto nella vita…
Il sopravvissuto
Quelli di questo tipo, quando ti vedono, hanno la stessa faccia che avrebbero se fosse stata loro comunicata la perdita dell’intera famiglia in un incidente aereo. A questi viene spontaneo fare coraggio e rassicurarli sul fatto che i disabili «non sono infettivi e non mordono».
Ma questa casistica l’ho proposta ai Lettori, per poter parlare del tipo che è il vero oggetto di questa riflessione: il supereroe.
Costui esordisce con parole tipo: «Se fossi al tuo posto, la maggior parte dei problemi li avrei già risolti, in fondo basta un briciolo di buona volontà». Stiamo parlando di una persona seriamente disturbata, insicura sui centimetri dei propri attributi e socialmente in difficoltà, se ha bisogno dei disabili per far mostra di sé. Eppure, mi si creda, è la più frequente. Del resto nessuno può sapere che cosa realmente farebbero questi se fossero nella mia situazione e tuttavia, se potessi scommettere un euro, scommetterei per il suicidio dopo la prima settimana…
In ogni caso è proprio di questi che oggi voglio parlare, perché non di rado essi infarciscono i loro sterili deliri di onnipotenza, con esempi buttati a caso, del tipo «c’è il cognato di mio cugino che pur essendo sulla sedia va a lavorare da solo». Poco importa se la situazione, i luoghi, le possibilità e le patologie siano diverse, in quel momento il cognato del cugino diventa la dimostrazione di come sia possibile eludere la disabilità, diventa la via d’uscita da una situazione in cui il “supereroe” si è sentito in imbarazzo.
Riflettiamo su questo: abbiamo appurato che nessuno, in un contesto di abili, citerebbe il proprio vicino di casa. Perché allora avviene comunemente che con i disabili si citi il cognato del cugino?
Credo che la soluzione possa essere nella prima risposta che abbiamo dato: in un contesto di abili si ha ben chiaro il valore della diversità delle singole esperienze, tanto da ritenere un non senso paragonarle, con la disabilità no e questo perché si è soliti ritenerla come “qualcosa di unico”, di comune, di sempre uguale (non sapete quante volte noi disabili veniamo scambiati l’uno per l’altro…).
Questa percezione della disabilità come un blocco monolitico e indistinto deriva dalla comune prassi di accomunare tutto ciò che percepiamo come diverso da noi. Se dunque la disabilità viene percepita superficialmente come una “disgrazia sempre uguale”, essa è in grado di cancellare nella mente degli abili qualsiasi tipo di differenza specifica che pur si concede in altri casi. I disabili perdono cioè le loro caratteristiche individuali, per diventare il disabile, spauracchio mitico che popola la mente dei supereroi in queste situazioni.
Ecco, dunque che, se si perde la facoltà di percepire le differenze tra disabili, tanto da ritenerli tutti uguali, tanto da confonderne i connotati e viverli come repliche di una mitica idea indistinta del disabile, allora le performance del cognato del cugino possono tornar buone ed essere usate a scapito del disabile di turno.
Concludo confessando che una delle cose più difficili della mia vita disabile è quella di dovermi quotidianamente difendere dalle performance del cugino del cognato. E penso che mi sentirò realmente parte della società, quando nessun “supereroe” mi citerà le performance di un suo parente, ma credo purtroppo che sia una speranza ancora troppo remota.