Opera prima di Alessandro Comodin, L’estate di Giacomo è uno dei quattordici film selezionati da Nanni Moretti per la rassegna Bimbi Belli 2012 – Esordi nel cinema italiano, presentato a Roma, all’Arena Nuovo Sacher (rione di Trastevere) il 22 luglio scorso.
Un folto pubblico è accorso alla proiezione del film, snodandosi in una lunga fila fino alle rotaie del tram, nella via alle spalle di Porta Portese, probabilmente attratto dalla motivazione del premio ricevuto dall’opera al Festival di Locarno 2011, dagli apprezzamenti della critica e dal grande successo che essa sta riscuotendo in Francia. Un altro segno tangibile che qualcosa si sta muovendo nel panorama desolante della crisi culturale italiana e fra il torpore del pubblico.
Alla notizia del tutto esaurito, la biglietteria è stata quasi presa d’assalto, tanto che Moretti, alla fine, ha deciso di fare entrare tutti, ben oltre i seicento posti a sedere.
Chi scrive è andata a vedere il film per formazione e naturale affezione a un certo tipo di cinema, ma anche perché incuriosita dal riferimento alla sordità che dalla lettura delle varie recensioni e critiche appariva piuttosto confuso e discordante.
In realtà L’estate di Giacomo è un film poetico, delicato, essenziale, dove ciascuno può rinvenire una traccia della propria adolescenza e riappropriarsi, tra gli sprazzi di luci, colori, suoni e silenzi, della natura o nei sorrisi, nei giochi e negli occhi dei protagonisti, di frammenti di ricordi lontani. La sordità, naturalmente presente perché il protagonista è un ragazzo sordo, appare dunque sfumata da altre componenti.
Giacomo e Stefania, amici dall’infanzia, camminano nei boschi, calpestano le foglie, a volte inciampano nei rovi, si graffiano, si sporcano nel fango, si trovano ora vicini, ora lontani, i loro respiri a volte si confondono, giocano, ridono, si scrutano, si confrontano in innocenti schermaglie, il loro andare non è altro che la metafora della vita, la crescita, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, la scoperta di nuove dimensioni e pulsioni, del corpo e della sensualità.
Ne seguiamo da dietro e a distanza ravvicinata (raramente intravediamo i loro primi piani) i passi e i movimenti nel bosco, fino ad arrivare – scoprendone la limpidezza – al fiume Tagliamento, accompagnati da una vera orchestra di suoni, dallo scroscio dell’acqua, al fruscìo delle foglie, del vento, un connubio di colori, rumori, vibrazioni di Madre Natura. Il Fiume e i ragazzi finiscono per fondersi gli uni con l’altro, creando un dialogo fatto di tuffi, schizzi, tonfi in un unicum armonico e suggestivo.
Giacomo parla tanto, con un linguaggio essenziale e cadenzato da termini gergali, come tutti i ragazzi della sua età; Stefi è più taciturna e riflessiva, si immerge nella natura e ne diventa parte. Le scene nel bosco si alternano a quelle della sagra paesana, le giostre, la musica, il ballo, la campagna, una casa rurale e un’assordante batteria.
La camera, nelle mani del regista, li segue e li lascia fare senza condizionamenti e schemi prestabiliti, senza interferire nella libertà del loro incedere e della loro espressività.
Scene e immagini, i dialoghi scarni e brevi, la lentezza di alcune sequenze, il taglio del film tra finzione e documentario rievocano lo stile caro alla Nouvelle Vague francese e a registi come Eric Rohmer e François Truffaut. Spontaneo, ad esempio, è il richiamo ai 400 colpi di Truffaut, che nel dibattito seguito alla proiezione, Comodin ha definito come «uno dei film più belli della storia del cinema». La scena della bicicletta, intensa da far venire i brividi, i volti dei ragazzi nei quali si coglie il loro anelito verso la vita e la voglia di esprimersi liberamente, richiama vagamente alla memoria la corsa verso la libertà ed il mare di Antoine Doinel, l’una e le altre colpiscono per l’autenticità, la freschezza e l’equilibrio tra improvvisazione e rigore.
L’ultima sequenza del film, poi, segna un netto salto temporale: Giacomo si è lasciato alle spalle l’adolescenza, ora sta vivendo una stagione più matura e la scoperta dell’amore con Barbara.
Alla proiezione, come detto, è seguito il dibattito, condotto da Moretti. Comodin, che ha studiato a Bruxelles e vive a Parigi, ha risposto, tra la soddisfazione e l’apprezzamento dei presenti, alle molte domande in maniera efficace ed esaustiva, comprese quelle riferite alla sordità di Giacomo, rivoltegli da alcuni spettatori, dimostrando una conoscenza approfondita e diretta di questo tipo di disabilità, che ha saputo trattare nel film non solo con sensibilità e delicatezza, ma anche con onestà intellettuale e obiettività.
Il giovane regista friulano conosce molto bene Giacomo, che è il fratello del suo migliore amico e con la sua famiglia ha condiviso le fasi che hanno portato alla decisione di affrontare un impianto cocleare, nella consapevolezza che ciò avrebbe rimesso in gioco dinamiche e situazioni già vissute quando Giacomo era diventato sordo a pochi mesi di età.
Il film doveva essere originariamente una sorta di documentario sulla fase precedente l’intervento e il nuovo percorso riabilitativo, tant’è vero che per un’intera estate delle due nelle quali è stato girato, molte sedute logopediche sono state riprese; via via però che la cosa prendeva corpo, Comodin si è reso conto che il discorso doveva essere piegato verso qualcosa di più profondo e intimistico e nello stesso tempo libero da schemi o progetti preordinati.
Il passaggio dal periodo precedente (il prologo) a quello successivo all’intervento viene mostrato solo dalla protesi acustica che Giacomo indossa mentre percuote vigorosamente una batteria e che, durante la passeggiata nel bosco, scompare. Ma non perché l’intervento abbia reso l’udito al ragazzo, come alcune recensioni hanno enfaticamente riportato, che invece, secondo la precisazione del regista, è ancora sordo e non “sordastro”, ma semplicemente perché l’escursione nel bosco si sarebbe conclusa con un bagno nelle acque del fiume e Giacomo aveva preferito saggiamente non indossare l’impianto.
Un valore aggiunto di questo film, va detto in conclusione, è rappresentato dalla sottotitolazione in italiano, che consente di abbattere una grossa barriera, oltre a veicolare una nuova dimensione della cultura, contro l’ignoranza e la superficialità. In tal senso un apprezzamento va rivolto alla distribuzione, oltre che alla sensibilità del regista il quale, a chi gli chiedeva se il sottotitolo fosse lì per ovviare alla voce del protagonista, ha risposto che gli sembrava un atto normalmente dovuto.
Purtroppo nessuna recensione l’ha messo in evidenza, dimostrando ancora una volta la ritrosia di certa stampa e di alcuni ambienti verso queste forme di accessibilità e fruizione della cultura da parte delle persone sorde. Tra il pubblico della serata romana c’è stato invece chi ha sottolineato questo aspetto, riferendolo – tra l’approvazione di Moretti e di Comodin – anche all’acquisizione di un diritto umano e fondamentale e ringraziando il regista per aver saputo trasmettere al pubblico un messaggio di forte spessore umano e culturale.