Negli ultimi mesi si è accentuata l’attenzione degli esperti e degli uomini di scuola sull’inclusione scolastica e sul significato dell’attività di sostegno didattico. La FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), insieme ad alcune altre associazioni, sostiene l’ipotesi di abolire le aree disciplinari nelle scuole superiori e di pervenire a una nuova classe di concorso per il sostegno. Dal canto suo, in tempi relativamente recenti, la Fondazione Agnelli – con l’Associazione TreeLLLe e la Caritas Italiana – ha pubblicato il rapporto intitolato Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte (Erickson, 2011), ponderoso studio sull’opportunità di mandare la maggioranza degli attuali docenti per il sostegno a insegnare nelle discipline curricolari di rispettiva abilitazione, lasciando solo una percentuale di essi a comporre gruppi di esperti itineranti a livello provinciale o subprovinciale, come consulenti esterni alle singole scuole.
Ebbene, mentre su queste ultime proposte si sono avute reazioni molto articolate, provenienti soprattutto del mondo accademico e in particolare dalla SIPeS (Società italiana di Pedagogia Speciale), oltre che dalla FISH, la proposta della stessa FISH sull’abolizione delle aree disciplinari per il sostegno nelle scuole superiori ha suscitato la reazione culturale di un certo numero di docenti specializzati nel sostegno. Finalmente, quindi, si riapre un dibattito culturale sull’inclusione scolastica e sul ruolo che in essa svolge il docente specializzato.
Lasciando da parte le critiche “pseudosindacali” secondo cui l’abolizione delle aree di sostegno nelle scuole superiori sarebbe voluta allo scopo di favorire docenti specializzati operanti in alcune discipline – come quelli di educazione tecnica – intendiamo invece esaminare le osservazioni più culturalmente pregnanti, come quelle contenute in un articolo recentemente pubblicato su queste stesse pagine, a firma di Giulia Giani, in rappresentanza di un gruppo di insegnanti di sostegno e in una lettera inviata dagli stessi docenti che hanno prodotto quel testo al sottosegretario all’Istruzione Rossi Doria, per scongiurare l’abolizione delle aree.
In sintesi, le osservazioni si concretizzano nella denuncia che l’abolizione delle aree renderebbe impossibile ai docenti per il sostegno seguire gli alunni nelle specifiche discipline; tale osservazione è rafforzata nei confronti della creazione della nuova classe di concorso per il sostegno, che renderebbe i docenti specializzati dei «semplici educatori» e «non più docenti».
La soluzione proposta è coerente con queste riflessioni, invitando il Ministero a rafforzare la funzione docente degli insegnanti specializzati i quali dovrebbero avere la cattedra sdoppiata in una parte di docenza curricolare nella propria disciplina per tutta la classe e in una parte per il sostegno in quella stessa disciplina con gli alunni con disabilità, ma anche con DSA [alunni con disturbi specifici di apprendimento, N.d.R.], con svantaggio socioculturale e con gli stranieri. Diverrebbero così, come si legge nell’articolo citato, «docenti bis-abili».
La proposta a tutta prima sembra interessante, ma, se esaminata più in profondità, essa svela una precisa concezione dell’inclusione scolastica che, a mio avviso, è opposta a quella su cui si è fondata l’inclusione stessa in Italia, sin dai suoi inizi, alla fine degli Anni Sessanta. Infatti, ove si accettasse questa ipotesi, avremmo attorno all’alunno con disabilità una “classe speciale”, composta da tutti i docenti specializzati, che opererebbero in tutte le discipline. E quindi, invece dell’abolizione delle aree disciplinari, si avrebbe una moltiplicazione delle aree pari al numero delle discipline insegnate.
L’ipotesi innovativa, invece, da cui partì allora l’Italia era che i responsabili primari dell’inclusione fossero i docenti curricolari che a quel tempo, infatti, seguirono moltissimi corsi di formazione e di aggiornamento in servizio, aiutati da docenti specializzati, per sostenere loro nel conoscere i bisogni educativi speciali e nel fornire indicazioni didattiche speciali, tali da facilitare il dialogo educativo con gli alunni con disabilità.
Purtroppo tale disegno originario – anche a causa della mancata formazione iniziale e in servizio dei docenti curricolari e dell’aumento del numero degli alunni per classe – è stato profondamente offuscato e il ruolo di sostegno dei docenti specializzati è divenuto preminente e addirittura “assorbente”. In altre parole, il docente per il sostegno è divenuto quasi la “protesi didattica” dell’alunno con disabilità, favorito in questa deriva dalla delega dei docenti curricolari ai soli docenti di sostegno, delega rafforzata dalle richieste crescenti del massimo di ore di sostegno, da parte dei genitori, richieste avallate anche dalla Magistratura per una malintesa concezione dell’inclusione scolastica.
A parere di chi scrive, oggi la tesi di quanti vorrebbero lo sdoppiamento della cattedra di sostegno in ore di sostegno e in ore disciplinari farebbe definitivamente propria questa deriva, capovolgendo totalmente la visione originaria dell’inclusione italiana.
A questo punto, pertanto, c’è da fare una scelta di fondo. O si accetta questa nuova soluzione – e allora è inutile quanto è previsto dal Decreto Ministeriale 249/10 sull’obbligo di formazione iniziale di tutti i futuri docenti curricolari sulle didattiche dell’inclusione scolastica e sull’obbligo di aggiornamento in servizio su di esse, specie con particolare riferimento alle specifiche tipologie di bisogni educativi speciali conseguenti alle differenti tipologie di deficit – oppure si migliora l’attuale situazione.
Le aree disciplinari attuali non funzionano, poiché in ciascuna di esse è raggruppato un notevole numero di discipline e quindi il docente nominato ad esempio nell’Area Tecnologica può essere uno di oltre centotrenta discipline e pertanto, anche se nominato in una specifica area, non necessariamente egli risponde ai bisogni educativi specifici di quell’alunno. Tanto è vero ciò, che le aree disciplinari non sono mai state realizzate nella scuola secondaria di primo grado [scuole medie inferiori, N.d.R.], che pur avrebbe dovuto adottarle per legge, e i risultati sono stati molto migliori rispetto alla scuola superiore. Né si dica che nella scuola secondaria di primo grado le discipline non sono specifiche come nelle scuole superiori, poiché occorrono ben precise classi di abilitazione per poter insegnare in ciascuna cattedra, così come per le scuole superiori.
La soluzione proposta dai “docenti bis-abili” – intesi cioè come abili sia nella specifica disciplina curricolare che nella corrispondente attività di sostegno – è senz’altro più coerente dell’attuale situazione e tuttavia essa rompe una scelta culturale ultraquarantennale che invece, con l’abolizione delle aree disciplinari, si vorrebbe proprio rilanciare. In tal senso va anche letta la richiesta della classe unica di concorso per il sostegno, che dovrebbe avere contenuti orientati non a un generico ruolo educativo, ma alle didattiche speciali con cui debbono essere sostenuti gli alunni con disabilità e i loro docenti curricolari.
Sapranno quindi gli attuali docenti specializzati cogliere il vero senso delle proposte della FISH e saprà il Ministero porre le condizioni per migliorare la qualità dell’inclusione scolastica, aumentando il numero di crediti formativi sulle didattiche speciali per la formazione iniziale dei futuri docenti curricolari della scuola secondaria, rispettando il tetto massimo di venti alunni nelle classi ove siano presenti studenti con disabilità, abolendo le aree disciplinari nelle superiori e individuando indicatori di qualità dell’inclusione nelle singole classi e nelle singole scuole, nell’ambito del sistema nazionale di valutazione che si intende attuare?
Vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
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