Una parola impronunciabile?

di Alberto Cacopardo*
Rilanciato in questi giorni in occasione dell’avvio delle Paralimpiadi di Londra e riferito all’opportunità di non usare il termine “disabili” nel denominare gli atleti, per non concentrare l’attenzione sulla condizione, anziché sulla persona, il dibattito sulle parole “giuste” per definire la disabilità si arricchisce di un ulteriore contributo, che riceviamo e ben volentieri pubblichiamo

Realizzazione grafica con lettere che escono a profusione dalla bocca di un uomo visto di profiloAncora una volta, dunque, veniamo invitati a piantarla di parlare di “disabili”. Questa volta da Alessandro Cannavò sul «Corriere della Sera.it – Salute». Almeno stavolta Cannavò ha il buon senso di non accennare nemmeno all’insopportabile espressione “diversamente abili”, che pretende di consolarmi dei vari guai della mia amatissima figlia Maddalena, ricordandomi la sua grande abilità a manovrare accendini, fare bolle di sapone e leggermi nel pensiero, sperando con questo di farmi dimenticare che non è in grado di parlare e di allacciarsi le scarpe. Facendosi forte addirittura della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, Cannavò ci spiega invece che dobbiamo parlare di «persone con disabilità», perché altrimenti concentreremmo l’attenzione «sulla condizione e non sulla persona». Siamo autorizzati semmai a parlare di «disabili al plurale» perché «in questo caso si indica un gruppo».

Dovranno dunque smetterla quelli che dicono “non vedente” a un cieco: dicano, per favore, “persona con nonvedenza”. Ma anche quelli che parlano di un “saldatore” o di un “ministro” o di un “mistico” sono colpevoli di attirare l’attenzione sulla condizione e non sulla persona: dicano per favore “persona con ministero”, “persona con capacità di saldatura”, “persona con testa incline alla mistica”. Il pacifista va chiamato “persona con pacifismo”, l’orticultore “persona con orto” e guai a parlare di un idiota anziché di una “persona con idiozia”. Esiste forse il pignolo? No: è una persona con pignoleria.
Altrimenti ci si può salvare dall’infamia parlando di un “membro dell’insieme dei saldatori” o di “uno fra i tanti idioti”: ed è un colpo di fortuna se per il ministro ce la possiamo cavare con meno spesa, bollandolo come “membro del governo”.

Sarebbe ora che ci rassegnassimo a riconoscere che essere ciechi o disabili non è una colpa: e dunque non è un’offesa riconoscere la realtà del fatto. Se non è una colpa, è però un male. E, come ho già avuto occasione di scrivere a suo tempo, il Male esiste e non è facendo a meno di nominarlo che possiamo illuderci di cancellarlo. La guerra non diventa meno orribile se la chiamiamo “operazione di pace” e il cancro non diventa cosa più bella se lo chiamiamo “un male che non perdona”.
Mia figlia è disabile, c’è poco da fare. Se voglio parlare della sua tenerezza, dirò che è tenera, se parlo del suo peso dirò che è un po’ cicciona, se parlo del suo pensiero potrò dire che è profonda e se voglio “concentrare l’attenzione” sulla sua persona, magari, che so, la chiamerò Maddalena.

Post scriptum: A quanto pare non sono proprio solo, si veda ad esempio che ne pensa Luca Pancalli, presidente del CIP (Comitato Italiano Paralimpico), come è stato ripreso anche sulle pagine di questo sito.

Blogger. Il presente testo, con lievi riadattamenti al diverso contenitore, è già apparso sul suo blog “Politics, poetry and peace – Alberto Cacopardo” e viene qui ripreso per gentile concessione.

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