La risposta all’attuale crisi economica mondiale ha una specificità che ci interessa. Al contrario, infatti, di altre crisi economiche, per la prima volta i Paesi forti industrialmente hanno deciso di tagliare le spese legate al welfare.
A memoria di chi scrive, durante la Grande Crisi del ’29, dopo una prima impostazione liberista, seguì, per controbilanciare gli esiti negativi sulla popolazione più povera, l’avvio del New Deal (ispirato da Maynard Keynes, economista assai famoso all’epoca), fatto di forti investimenti pubblici nel welfare – la cui nascita si fa risalire proprio a quel periodo – e di opere pubbliche. Lo stesso avvenne nel secondo dopoguerra con il Piano Marshall, anch’esso deciso dopo discussioni analoghe su quali soluzioni adottare per combattere la crisi depressiva.
In entrambi quei casi, dunque, alla soluzione restrittiva di interventi squisitamente economici legati al risparmio, si contrappose la soluzione espansiva, con azioni che tennero contro delle difficoltà vissute dalle popolazioni con scarsi redditi a sostenere le politiche di sviluppo.
In altre parole, le soluzioni venivano indicate nell’espansione della spesa pubblica, ritenuta la strategia più efficace per rilanciare l’economia e sostenere lo sviluppo con un mercato adeguato. Inoltre era necessario supportare il welfare, per combattere la povertà e i rischi di emarginazione.
Oggi, soprattutto nei Paesi europei – giacché negli Stati Uniti si predica una diversa forma di uscita dalla crisi – le risposte si rifanno principalmente alla riduzione della spesa pubblica, per contenere i debiti degli Stati, ampliatisi negli ultimi anni proprio per contrastare la crisi nel settore bancario, e in particolare a un contenimento degli interventi di welfare.
Facciamo alcuni esempi. La recente crisi di affidabilità del Governo greco (e di quei Paesi con pesanti deficit pubblici, che vengono chiamati anche PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) ha portato a una serie di provvedimenti da parte degli Stati interessati, tesi a ridurre la spesa pubblica, molti dei quali hanno colpito (o hanno tentato di colpire) lo stato sociale. Mentre infatti il taglio del Governo greco al welfare è rilevantissimo ed è ancora in corso, il Governo francese sta discutendo una legge sulle pensioni e ha deciso di tagliare alcune spese sociali. Dal canto suo, il Governo inglese ha tagliato il budget pubblico dal 25 al 40%, ad eccezione che per le spese sulla salute. E ancora, la Germania ha iniziato a ridimensionare il bilancio pubblico per 86 miliardi di euro, mentre la Spagna ha annunciato un analogo taglio di 50 miliardi.
In altre parole, il taglio del deficit pubblico include nei risparmi le spese per il welfare. Ma perché questo avviene? Da un lato perché l’ideologia liberista (in questo senso non è affatto vero che siano sparite le ideologie…) è diventata il credo economico sia della destra che della sinistra, pur con qualche eccezione. Per crescere, pertanto, bisogna ridurre le spese improduttive e il welfare è considerato tale. Dall’altro lato, l’Occidente si vede assediato dalla crescita dei cosiddetti BRIC (i Paesi in fase di espansione economica, ovvero Brasile, Russia, India e Cina), che non hanno sistemi di welfare pari a quelli degli Stati industrializzati. Per essere competitivi, quindi, bisogna eliminare la “zavorra” del welfare! E l’unico parametro che misura la crescita di un Paese continua ad essere solo l’aumento del PIL (Prodotto Interno Lordo).
Il confronto è aspro e vede i rigoristi predicare la riduzione del debito pubblico, gli espansionisti rivendicare interventi pubblici per favorire la crescita economica. Pochi, però, sia da una parte che dall’altra, difendono le politiche di welfare.
In questo dibattito si sono per altro inseriti nuovi elementi critici, il primo dei quali è quello relativo agli indicatori di crescita. Il Premio Nobel per l’Economia del 1998 Amartya Sen ha posto ad esempio in evidenza che la crescita di una nazione dovrebbe misurasi – più che sul PIL – sulla crescita del capitale umano, inteso come aumento di conoscenza e di competenza nella popolazione, di capacità di autodeterminazione e di empowerment [aumento dell’autoconsapevolezza, N.d.R.], di benessere e di sicurezza sociale. La consapevolezza è quella di pensare che in una società che cresce, debba crescere la giustizia per tutti e il fatto che nessuno rimanga escluso dai risultati della crescita stessa.
L’altro elemento è che il mercato non tutela i diritti, a meno che non sia regolato in maniera da obbligare a farlo. Si pensi solo alle tante autorità che nascono per tutelare la privacy, la concorrenza, la comunicazione ecc., per rendersi conto di quanto il mercato sia ingiusto e soggetto alla “legge del più forte”. O si pensi anche alla legislazione sul lavoro per le persone con disabilità, basato sul sistema delle quote obbligatorie d’occupazione: senza quelle norme – del resto mai applicate integralmente – le aziende occuperebbero queste persone?
Altro elemento emerso negli ultimi anni si sostanzia in un quesito fondamentale: le politiche di welfare sono effettivamente improduttive? Ad esempio, un sistema sanitario efficace riduce l’assenteismo? E un sistema di asili nido permette alle donne di andare a lavorare? Forse il welfare, dicono alcuni economisti, è complementare alla crescita economica e delle risorse umane. E d’altra parte perché la società cresce? Per dare potere alle lobby finanziarie, alle grandi multinazionali, oppure per accrescere il benessere dei propri Cittadini?
In questo contesto la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha introdotto alcuni nuovi approcci al tema di cui si occupa. Innanzitutto il processo di ratifica è cresciuto in poco tempo: ad oggi 153 Paesi hanno firmato la Convenzione e 90 hanno sottoscritto anche il Protocollo Opzionale ad essa, mentre la ratifica è arrivata da 119 Paesi (72 il Protocollo Facoltativo) [se ne veda l’elenco aggiornato anche in questo sito, N.d.R.]. La Convenzione, quindi, è ormai lo standard internazionale sia per i programmi e per le politiche riguardanti le persone con disabilità, sia per lo sviluppo in generale.
Questo Trattato – che giustamente si definisce una “Convenzione basata sui diritti umani” – ha solennemente affermato che le persone con disabilità sono parte della società e quindi devono beneficiare di tutti gli interventi e le politiche, in modo tale da garantire la rimozione di ostacoli e barriere e la proibizione di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla disabilità. Questo significa che gli Stati devono mettere in campo un nuovo approccio alle politiche indirizzate alle persone con disabilità. In tal senso vediamo di approfondire alcuni concetti che ci aiuteranno a formulare nuove politiche.
La Convenzione riconosce che le persone con disabilità sono escluse dai benefìci della crescita della società, dal godimento di beni e servizi in condizione di parità con gli altri. Il concetto di Universal Design, in altri termini, viene inscritto in un contesto di tutela dei diritti umani e quindi non è più solo un’esigenza normativa, ma si configura – qualora venga negato o dimenticato – come una violazione dei diritti umani. Gli Stati, pertanto, devono garantire l’inclusione di questi Cittadini in tutte le politiche ed è lo stesso concetto di sviluppo ad essere riformulato: ha senso, infatti, uno sviluppo che esclude fasce cospicue di persone (giovani, anziani, donne, persone con disabilità ecc.)? Proprio da qui è nato il concetto di sviluppo inclusivo, uno sviluppo, cioè, che si ponga l’obiettivo di non escludere nessuno dai suoi benefìci, sia con obiettivi inclusivi ben definiti, sia con metodologie appropriate. Un concetto, quest’ultimo, che inizia ad essere applicato nell’ambito di progetti di cooperazione internazionale in Paesi in cerca di sviluppo.
L’inclusione è quindi un diritto/processo che interviene per riscrivere le regole di una società che esclude e colpisce le persone da più punti di vista: stigma sociale; impoverimento delle persone colpite; marchio di diversità negativa; rifiuto al dialogo. Se l’esclusione è basata su un’azione “semplice” – la valutazione negativa della persona; il rifiuto della parità di condizione; la negazione dell’appartenenza attraverso trattamenti differenziati senza giustificazione; la cancellazione dell’altro come persona titolare di diritti umani – l’inclusione è invece un processo faticoso, di crescita di consapevolezza, di riscrittura dei princìpi, di recupero di dignità delle persone escluse, di ricerca degli strumenti appropriati per farlo, di presa in considerazione di nuovi bisogni, di riequilibrio dei poteri all’interno della società tutta.
Le persone con disabilità sono il 15% della popolazione globale, come scrive l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). In realtà, la stessa OMS sottolinea che nell’arco di una vita tutte le persone che vivono sulla terra vivranno esperienze di disabilità (perché bambini, perché anziani, perché incidentati ecc.). In altre parole le politiche sulla disabilità non sono politiche indirizzate a fasce minoritarie della società, ma riguardano tutto il genere umano e quindi sono politiche generali e non di nicchia. Investire perciò per garantire una società senza barriere e discriminazioni è una convenienza economica e sociale.
Questo nuovo approccio identifica una nuova idea di giustizia per le persone con disabilità. La Convenzione ONU – anche se in maniera non esplicita – introduce un nuovo modello di disabilità, basato sul rispetto dei diritti umani, che rielabora il modello sociale, inquadrandolo in una prospettiva universalistica, basata appunto su un approccio centrato sui diritti. Un modello, in sostanza, che rivoluziona i comportamenti economici, politici e sociali legati alle persone con disabilità. La stessa Convenzione, infatti, sposta i punti di vista da cui partire per rispondere ai diritti di questi Cittadini, all’insegna di profonde trasformazioni: dalla lettura della condizione di disabilità che parte delle patologie si passa a un’attenzione alle relazioni sociali; dalle condizioni soggettive delle persone ci si concentra sui condizionamenti ambientali e sociali; dal riconoscimento dei bisogni si arriva a quello dei diritti; dalla società che disabilita le persone a una società che le abilita.
È evidente che questo approccio culturale impone una profonda modifica della lettura della condizione delle persone con disabilità e una conseguente trasformazione su cosa si debba fare per garantire il rispetto dei loro diritti umani. Alla base della Convenzione, infatti, vi è un nuovo modello di giustizia, non più “giustizia metafisica” (“sarai ricompensato nell’aldilà”), né della semplice cura e assistenza, né tanto meno quella esclusivamente risarcitoria, oppure quella protettiva. Il nuovo paradigma – basato sull’uguaglianza e la non discriminazione, sulla valorizzazione delle diversità umane, sull’empowerment delle persone discriminate e svantaggiate – si fonda sulla rimozione di ostacoli e discriminazioni, sul sostegno appropriato alle persone, su servizi e benefìci finalizzati all’inclusione dei soggetti esclusi e marginalizzati. Si tratta, in conclusione, di un vero e proprio nuovo modello di sviluppo.
In questo quadro, il superamento dell’esclusione diventa un obiettivo prioritario delle politiche di sviluppo. Diventa perciò necessario ripensare le politiche di welfare, che non saranno più residuali, ma dovranno diventare politiche incardinate in tutti gli ambiti di sviluppo economico e sociale, allo scopo di rimuovere le barriere, gli ostacoli e le discriminazioni che impediscono a larghe fasce sociali di partecipare e beneficiare dei risultati dello sviluppo. In altre parole, da un welfare basato sulla protezione sociale, sarà necessario arrivare ad un welfare basato sull’inclusione sociale. Questo significa che le valutazioni delle capacità delle persone non dovranno limitarsi ai parametri percentuali – basati su criteri esclusivamente medici – ma concentrarsi sulle reali condizioni e sulle potenzialità delle persone; significa altresì che gli interventi non dovranno essere genericamente assistenziali, ma volti a rimuovere le barriere e gli ostacoli, per sostenere le persone nei processi di autonomia e inclusione sociale; che le politiche, infine, dovranno indirizzarsi a garantire il sostegno alle persone con disabilità non solo in ambito sanitario e assistenziale, ma anche in quello del lavoro, dell’educazione, dei trasporti, dell’ambiente costruito, del turismo, del tempo libero e così via.
Quello dell’uso delle risorse è un campo particolarmente delicato di questa trasformazione. Quante sono oggi le risorse destinate all’inclusione delle persone con disabilità? E se le persone con disabilità sono il 15% della popolazione – come prima si è detto – gli Stati arrivano a destinare il 15% delle proprie risorse a questa fascia di Cittadini?
Ecco quindi che nel bilancio delle politiche indirizzate all’inclusione delle persone con disabilità dovrebbero essere inserite anche le azioni di mainstreaming (spesso, ahimè, assenti), in modo tale, cioè, da intervenire sull’impiego, sui trasporti, sull’educazione, sull’accessibilità, sul turismo, sullo sport e tempo libero, solo per fare alcuni esempi [con il termine “mainstreaming” si intende l’inserimento di politiche normalmente settoriali nel “flusso principale” delle politiche generali, N.d.R.].
Pertanto, il modello di giustizia legato alla Convenzione ONU modifica profondamente la lettura politica della nostra condizione di persone con disabilità. Se prima eravamo persone fragili e vulnerabili, a causa della nostra condizione di minorazione funzionale, la Convenzione ci restituisce alla titolarità dei diritti come Cittadini, a cui la società deve dare risposte in termini di eguaglianza di opportunità e di non discriminazione. La “visione medica” della società ci relegava fuori dalle politiche ordinarie, come persone “da curare e da assistere”, cui destinare eventuali risorse aggiuntive della società. Tale impostazione vedeva le persone con disabilità beneficiarie di interventi assistenziali e sanitari.
Proprio questa logica di verifica dell’eligibility [letteralmente “ammissibilità”, N.d.R.] delle persone, attraverso le procedure di accertamento della condizione di minorazione, basate su parametri medici, le escludevano dai benefìci di politiche indirizzate all’intera popolazione. Il sistema manteneva così le persone con disabilità ai margini della società la quale si attivava per assegnar loro risorse solo in presenza di periodi di crescita economica. La Convenzione ONU, come detto, cambia alla radice questa visione: prima di tutto considera le persone con disabilità parte della società e quindi beneficiarie di tutte le politiche e i programmi. E questa visione – rispettosa dei diritti umani, di cui sono titolari tutti i Cittadini – impone che gli Stati includano le persone con disabilità in tutti i provvedimenti, le legislazioni, le politiche. Ciò significa che le risorse, prima destinate ai “Cittadini di serie A”, ai quali si aggiungevano nei periodi di “vacche grasse” risorse aggiuntive per le persone con disabilità (e per altre fasce sociali “vulnerabili”), dovranno essere utilizzate per tutti i Cittadini.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale e politica, che tuttavia non è ancora stata compresa e digerita dai Governi, dalle forze politiche, dai Cittadini e, spesso, dalle stesse persone con disabilità e dalle loro associazioni.
Oggi, dunque, stiamo pagando l’idea che le politiche di welfare siano un lusso e in questi ultimi anni, nonostante la Convenzione ONU, anche gli Stati che l’hanno ratificata hanno schizofrenicamente ridotto gli interventi a favore delle persone con disabilità.
In altre parole, i fondi per gli interventi sociali – in un quadro in cui questi risultano ancora sostanzialmente legati al vecchio modello medico della disabilità – sono considerati “elastici”, quasi fossero interventi caritativi. Il riconoscimento delle responsabilità della società che crea condizioni di disabilità deve invece far cambiare anche il modello di giustizia e di motivazione dei vari interventi di sostegno, che vanno legati al conseguimento di condizioni di uguaglianza e non discriminazione, quindi di tutela dei diritti umani, come appunto afferma la Convenzione. Pertanto essi non devono essere interventi soggetti a flessibilità delle risorse, in quanto i diritti umani non sono comprimibili, a maggior ragione se responsabili sono anche le politiche pubbliche.
Inoltre, la Convenzione obbliga gli Stati che l’hanno ratificata a monitorare i progressi con un rapporto periodico da inviare al Comitato per i Diritti delle Persone con Disabilità delle Nazioni Unite (l’Italia invierà il primo rapporto nell’autunno prossimo).
Le persone con disabilità, insomma, da assistiti, e “pesi sociali”, devono diventare Cittadini a pieno titolo cui indirizzare le politiche generali e un approccio innovativo in questa direzione lo assumono le già accennate politiche di mainstreaming. Soprattutto, i Cittadini con disabilità passano dal ruolo di assistiti a quello di contribuenti e la raccolta di dati e statistiche sull’impatto delle politiche di inclusione dovrà anch’essa essere basate su nuovi dati («identificare e rimuovere le barriere che le persone con disabilità affrontano nell’esercizio dei propri diritti», articolo 31 della Convenzione ONU). Si dovranno in sostanza elaborare nuove ricerche, basate sulla definizione di disabilità introdotta dalla Convenzione, come, ad esempio, il livello di accessibilità di una città, le discriminazioni presenti nell’accesso ai vari beni e servizi, gli ostacoli e le barriere che impediscono la piena partecipazione e l’inclusione nel mondo dell’educazione, del lavoro, del turismo e del tempo libero.
Una vera e propria rivoluzione – come detto – che deve coinvolgere prima di tutte le persone con disabilità e le organizzazioni che le rappresentano.
Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), componente dell’Ad Hoc Committee (Comitato Ad Hoc) che ha elaborato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
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