Siamo grati all’avvocato Salvatore Nocera, vicepresidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che con il suo articolo in risposta alla nostra contrarietà all’abolizione delle aree disciplinari e alla creazione di una classe di concorso specifica per il sostegno, ha correttamente sottolineato la portata culturale ad ampio raggio delle due posizioni finora emerse a proposito di inclusione scolastica, lasciando a margine sia le cosiddette «critiche “pseudosindacali”» (che alcuni contrari all’area unica portano avanti come sola bandiera di rivendicazione), sia le critiche da parte degli insegnanti di sostegno “per scelta di vita”, che leggono la nostra posizione come espressione di frustrazione e impreparazione nel ruolo di insegnante di sostegno.
“Ad armi pari”, quindi, e finalmente, lasciamo da parte le questioni che più si prestano a rivendicazioni reciproche, perché la posta in gioco è davvero molto più alta (e osiamo dire più bella): qui si entra nel merito di problemi ben più profondi, perché rappresentano il cuore di scelte future a proposito di inclusione scolastica, e l’importanza di tali scelte è a nostro avviso cruciale per la “tenuta” o il “crollo” del sistema.
L’avvocato Nocera sintetizza piuttosto bene il merito della nostra proposta di “insegnanti bis-abili” nei suoi caratteri di fondo, fatti salvi alcuni aspetti davvero significativi che ci preme chiarire. Si dice infatti, nell’articolo del nostro interlocutore, che «ove si accettasse questa ipotesi, avremmo attorno all’alunno con disabilità una “classe speciale”, composta da tutti i docenti specializzati, che opererebbero in tutte le discipline. E quindi, invece dell’abolizione delle aree disciplinari, si avrebbe una moltiplicazione delle aree pari al numero delle discipline insegnate».
L’idea di bis-abilità che emerge dalla nostra proposta è invece esattamente l’opposto di quanto qui si afferma, perché con la compresenza “a coppie” di docenti competenti nella disciplina di riferimento non avremmo attorno all’alunno con disabilità una “classe speciale”, ma al contrario proprio una classe “normale”.
Ciò che oggi, infatti, rende difficile l’inclusione scolastica degli studenti è la presenza di una figura – quale quella del docente di sostegno – che è vissuta dallo studente disabile, dai colleghi curricolari, dagli altri alunni della classe e non di rado dagli stessi docenti specializzati, come “un’appendice” dell’alunno disabile, poco rilevante ai fini della didattica per l’intera classe.
Ecco che allora, in questa prospettiva, oggi sono “classi speciali” quelle in cui c’è l’insegnante di sostegno rispetto a quelle in cui non c’è, perché c’è una “figura ibrida”, con caratteri intermedi tra assistenza e docenza, che deve fungere da mediatore didattico, ma a cui si chiede di farlo in discipline che non conosce, con risultati poco soddisfacenti, poca chiarezza nella natura dei suoi interventi e conseguente senso di impotenza dei docenti specializzati, da una parte, e insofferenza da parte dei docenti curricolari, dall’altra, i quali spesso non si sentono adeguatamente sostenuti.
Non avremmo, nella nostra prospettiva, una moltiplicazione delle aree disciplinari del sostegno pari al numero delle discipline insegnate, sarebbe molto più semplice: avremmo solo una compresenza di due docenti competenti, che si coordinano e si supportano nella prospettiva del sostegno a tutta la classe, nella quale l’alunno disabile non si sentirebbe più etichettato come “quello che ha l’insegnante di sostegno”. Non avrebbe più senso, allora, parlare di “area unica” o di “molteplicità” di aree, si parlerebbe solo di didattica “normalmente” potenziata.
Nocera sostiene poi che «l’ipotesi innovativa, invece, da cui partì l’Italia (negli anni Sessanta) era che i responsabili primari dell’inclusione fossero i docenti curricolari che a quel tempo, infatti, seguirono moltissimi corsi di formazione e di aggiornamento in servizio». Successivamente afferma che quello della formazione in servizio per i docenti curricolari è stato, negli anni, un obiettivo mancato, che non si è realizzato. Ci chiediamo a questo punto: ha senso riprovare quarant’anni dopo a costruire su un obiettivo già mancato alla prova dei fatti? Perché intestardirsi nella visione “ideale” di un sistema che ha sostanzialmente fallito?
Crediamo che la sintesi della nostra proposta di “bis-abilità” abbia lo scopo di sostenere fattivamente, e non solo a parole, quanto afferma l’avvocato Nocera rispetto al ruolo preminente dei docenti curricolari nel processo di inclusione. Non siamo quindi d’accordo quando si dice che la nostra idea non è vicina, «nello spirito», all’idea originaria di inclusione scolastica; al contrario, riteniamo che parta proprio da quel fondamento, per essere però innovativa nella forma e nei metodi, a distanza di quarant’anni dai primi tentativi di integrazione della disabilità.
Se infatti l’obiettivo originario della legge era che tutti i curricolari dovessero essere “abili” nell’occuparsi di disabilità – e questo, in sé, era, ed è, un obiettivo positivo – riteniamo che, pur essendo un risultato difficile da raggiungere per la totalità dei docenti, la nostra proposta di insegnanti “bis-abili” risponda in buona parte (almeno quantitativamente) all’obiettivo originario della legge, così come, nei prossimi quarant’anni, potrebbe probabilmente rispondere più e meglio alle aspettative dell’utenza.
Se ci è permesso dirlo, uno dei limiti della proposta della FISH è quello di rimanere ancorata, non solo nel principio, ma anche nella forma di attuazione, a quanto poteva forse essere realizzabile negli anni Sessanta e che invece, a nostro parere, non è più realizzabile oggi. Infatti, l’avvocato Nocera parla di «rilanciare» un modello, di «migliorare la situazione esistente», mentre noi parliamo di «innovarlo» nella sua stessa realizzazione pratica.
Il fatto che a suo tempo la proposta italiana fosse “innovativa” è senz’altro una nota di merito del nostro Paese di allora, ma ciò non significa che l’idea innovativa in un determinato contesto debba essere replicata anche quando palesemente segnala limiti e difficoltà così evidenti; è molto più onesto e coraggioso cercare a fondo quei motivi e proporre soluzioni che possano essere valide oggi, non riproporre un modello per il semplice fatto che in passato è stato (se lo è stato) efficace.
Sono molti i motivi per cui riteniamo che quel modello – non quel principio, beninteso… – sia datato: in primo luogo, non possiamo non considerare che l’inserimento di un alunno disabile nelle classi di oggi è molto più complesso di un tempo, proprio perché abbiamo a che fare con un maggior numero di alunni e con una molteplicità di bisogni educativi speciali anche di alunni “non disabili”, che chiedono continuamente attenzione e che nei fatti portano il docente curricolare a delegare tutto al docente di sostegno, perché spesso non gli è possibile fare altrimenti di fronte alla mille difficoltà di cui deve occuparsi.
Noi crediamo che nell’organizzazione attuale delle risorse, con la ripartizione sostegno/materia in modo assoluto e per la totalità delle ore di servizio, i carichi di lavoro siano così sbilanciati che molti docenti curricolari non potranno vedere in altro modo che come un’imposizione ulteriore la formazione in servizio obbligatoria su queste questioni, perché l’unica proposta finora messa in campo è quella di “formazione in più” per un’organizzazione “statica”: se rimarrà l’attuale concezione del docente di sostegno, non sarà certo un corso di formazione obbligatorio in servizio a ripartire in altro modo le mansioni… L’unico modo per farlo davvero è far sì che anche i curricolari si occupino, in una parte del loro orario, di disabilità. Allora dovranno necessariamente confrontarsi con la didattica speciale e la formazione non sarà solo “teorica”, ma sarà necessaria, per loro, per poter operare efficacemente.
Inoltre, l’idea troppo “ottimista” che basti una formazione in servizio obbligatoria per cambiare la visione del ruolo del docente di sostegno, si scontra con decenni di organizzazione scolastica che ha visto in questo ruolo la delega di tutti i problemi e che potrà essere cambiata, a nostro avviso, solo con un ripensamento dei ruoli, anziché con il loro irrigidimento in “classi di concorso” specifiche.
Vogliamo dire che quando una divisione di ruoli è talmente tanto consolidata nella percezione e nella mentalità delle persone da apparire “normale”, bisogna “tagliarla” e crearne una nuova; non si deve avere l’illusione di poter far rivivere un’idea che nella realtà si scontra con decenni di cattive pratiche, che hanno ormai creato stereotipi e pregiudizi difficili (se non impossibili) da eliminare.
Speriamo che l’onestà intellettuale del nostro interlocutore sia tale da rendersi conto che la proposta di presa in carico della disabilità da parte dei docenti curricolari e la creazione di una classe di concorso di sostegno sono in palese contraddizione tra loro, e che se in quarant’anni la classe di concorso non è stata istituita, crediamo che l’ottimo motivo sia stato proprio quello di non marginalizzare la questione della disabilità, ma di farne una specializzazione a posteriori rispetto alla formazione del docente. Tra l’altro, visto che il sostegno non è una “disciplina” e “non si insegna”, ma è un’attività di supporto alla didattica che “si fa”, a nostro parere il concetto stesso di classe di concorso non ha senso.
Sul fatto poi che nella scuola media l’area unica abbia dato risultati migliori, ci sentiamo di dissentire; non volendo entrare nel merito, perché non riguarda la questione qui esaminata, diciamo solo che, seppur è vero che anche nella scuola media esistono classi di concorso e contenuti disciplinari, è altresì vero che la gran parte di tali contenuti sono più semplici da mediare per i docenti, anche per la fascia d’età a cui si rivolgono. Inoltre, allo stato attuale delle cose, la scuola media è forse l’ordine di studi dove la delega al docente di sostegno e la sua presa in carico dell’alunno disabile sono più diffuse, anche per le particolari problematicità di questo ordine di scuola e di questa fascia d’età.
Proprio per le significative differenze esistenti tra scuola media e scuola superiore, riteniamo necessario che la questione della maggiore complessità dei contenuti disciplinari venga tenuta in considerazione, così come vanno considerate le maggiori resistenze di alunni adolescenti ad accettare e rielaborare le questioni identitarie legate anche alla consapevolezza della propria disabilità, nonché all’accettazione dell’insegnante di sostegno.
Proprio dalla scuola superiore, quindi, potrebbe partire la bis-abilità dell’impiego delle risorse, per favorire la presa in carico dei docenti curricolari nella pratica quotidiana delle scuole e non nella “teoria della formazione”; per essere vicini alla sensibilità degli alunni disabili che non vogliono sentirsi etichettati come “diversi”; perché, come dice l’avvocato Nocera, «le aree non funzionano» e quindi ha senso pensare a un intervento alternativo che metta al centro le competenze dei docenti.
L’ultimo grande limite della proposta della FISH, a nostro parere, riguarda proprio noi, i docenti di sostegno. Pare che tutte le proposte vengano fatte a partire da un “punto di vista unico”, quello della (apparente) tutela della disabilità e dell’inclusione scolastica, mentre per poter realizzare nel modo più efficace possibile un obiettivo come questo, è necessario partire proprio dalle forze in campo per realizzarlo e solo dopo scegliere come realizzarlo.
Noi partiamo da qui: quali risorse di docenti abbiamo oggi? Che formazione hanno avuto? Che aspirazioni hanno? Cos’ha significato la specializzazione di sostegno per loro? E soprattutto che legittimità esiste nel voler trasformare una “specializzazione aggiuntiva e a posteriori” in un percorso a senso unico, che limita anziché arricchire, che vincola le persone a svolgere una sola mansione, quando avrebbero le competenze per svolgerne anche altre? A quali rischi si andrebbe incontro, irrigidendo ulteriormente un sistema a nostro avviso già troppo limitante per i docenti di sostegno attuali?
Speriamo che le associazioni a tutela dei disabili e le famiglie si siano poste queste domande, perché questa è la differenza tra “tenuta” e “crollo” del sistema, tra avere docenti che svolgono il servizio di tutela del diritto all’istruzione della disabilità e un’illegittima violazione delle competenze e delle aspirazioni professionali con obblighi di servizio inaccettabili, perché sarebbero propri solo dell’insegnamento su sostegno (come, del resto, è già oggi il vincolo quinquennale esistente), costituendo, quindi, un ulteriore motivo di demotivazione, disillusione e senso di costrizione di cui la scuola non ha bisogno.
In altre parole, ci si rende conto che fare l’insegnante di sostegno a tempo pieno e per anni con un vincolo di servizio non ha altra funzione che quella di “punire”, anziché valorizzare, chi lavora sulla disabilità? Di cosa ha paura chi propone un vincolo? Del fatto che il sistema a un certo punto “esploda”, perché nessuno vorrebbe più svolgere questo mestiere in questo modo? Crediamo sia davvero un paradosso cercare di dare qualità all’inclusione scolastica in un modo che crea barriere e allontana i docenti motivati dall’esperienza di sostegno, per la paura che diventi l’“unica” esperienza.
Riteniamo anche, senza polemica, un po’ presuntuoso il pensare che con le “nuove proposte di vecchio sapore”, per rilanciare l’inclusione scolastica, questo mestiere diventerebbe all’improvviso appetibile e realizzante al punto tale da bastare a se stesso. Noi partiamo da un altro presupposto, che è quello di considerare la disabilità uno dei tanti aspetti con cui chi vive a scuola deve confrontarsi e con cui noi docenti specializzati abbiamo l’aspirazione a confrontarci.
La visione idealistica dell’inclusione scolastica degli Anni Sessanta si scontra con una ben più difficile realtà: se era possibile, in passato, “gestire” un numero di docenti di sostegno relativamente basso, perché gli alunni erano inferiori nel numero e inseriti in classi meno problematiche, con l’aumento graduale nelle scuole di alunni con disabilità, si è arrivati ad un punto in cui gli insegnanti di sostegno oggi in servizio sono tanti, hanno seguito percorsi diversi di formazione, hanno sensibilità diverse e hanno sperimentato modi di operare, nella pratica quotidiana, che non pare vengano tenuti in considerazione da chi fa la proposta di area unica.
Se sosteniamo, in molti, che non ha senso mediare discipline che non conosciamo, dal momento che lo abbiamo provato sulla nostra pelle, perché sminuire questo vissuto? Anziché trarre vantaggio dalle nostre riflessioni e considerazioni per trovare strategie diverse, si nega il problema e si dice che «non è importante», che «non siamo ripetitori dei docenti curricolari», negando quindi la nostra formazione e vocazione di docenti… Per noi, invece, è molto importante, è la ragione per cui facciamo questo mestiere pensando di poter essere di qualche utilità.
La questione nodale, di fondo, sta proprio qui: noi docenti di sostegno siamo docenti specializzati, con una formazione disciplinare alle spalle e con l’aspirazione a insegnare nella scuola italiana, sfruttando le nostre competenze nel modo più ricco possibile: per qualcuno di noi l’insegnamento di sostegno è una scelta, per altri una tappa di percorso, per altri ancora un punto d’arrivo e per qualcuno – tra cui chi scrive – vorrebbe essere una scelta parallela alla didattica curricolare, da esercitare nel tempo e con continuità.
La nostra proposta, allora, è “buona” perché parte da noi operatori e non è una visione “ideale” ma lontana dai vissuti delle persone; perché è moderna rispetto all’analisi dei bisogni complessi di cui oggi la scuola tutta – e non solo quella della disabilità – ha bisogno; perché non vuole ledere i diritti di nessuno a realizzare la propria professionalità nel modo più completo possibile; perché tiene in considerazione che il mondo dei docenti di sostegno è fatto da molte e diverse sensibilità e le rispetta tutte; perché non vuole imporre nulla a nessuno, ma al contrario vuole promuovere una presa in carico di responsabilità dei disabili da parte di tutti i colleghi, senza marginalizzare alcuna professionalità.
La nostra idea è “buona” perché parte dal principio della sostenibilità dei carichi, perché non toglie ai docenti di sostegno la legittima aspirazione (per chi ce l’ha) a insegnare la propria disciplina, e perché amplia davvero la possibilità di molti docenti di vivere la didattica speciale non come “a parte”, ma come “parte integrante” della vita della scuola. Le altre proposte, invece, “non sono buone” perché partono da un solo punto di vista e nell’intento di realizzarlo ledono i diritti degli altri.
Alle ambiziose domande finali proposte dall’avvocato Nocera, rilanciamo quindi con queste: sapranno le associazioni a tutela dei disabili e saprà il Ministero cogliere l’opportunità che possiamo offrire noi docenti di sostegno? Sapranno “fidarsi” di noi? Saranno in grado di tutelare il nostro percorso formativo garantendoci la libertà di poter insegnare come tutti i docenti? Ma soprattutto: si avrà il coraggio di pensare all’attuale situazione non come alla “deriva” di un sistema perfetto da ripristinare, ma come una “crisi” da cui uscire solo con un profondo cambiamento nella visione dei ruoli e delle mansioni dei docenti, che metta tutti sullo stesso piano e per davvero?
In conclusione, piuttosto che approvare frettolose riforme, riteniamo che dopo quarant’anni di inclusione scolastica, il nostro Paese meriti molto di più: chiediamo più tempo a disposizione per un confronto ulteriore e di persona con le associazioni di tutela dei disabili e con le famiglie degli studenti; vogliamo che ci venga chiesto come pensiamo di poter realizzare l’inclusione in modo efficace, chiediamo di potere sperimentare, senza cambiamenti di normative vigenti, altre soluzioni. Solo quando si sarà trovata una risposta più efficace di quella attuale e la si sarà sperimentata, solo allora riteniamo si possano proporre cambiamenti normativi, ma “le regole del gioco” devono essere chiare per tutti gli attori in campo sin dall’inizio, non certo in corsa… Che oggi, insomma, si tutelino i diritti di chi si è specializzato a queste regole e in queste ha creduto.
Se abbiamo avuto la grande ambizione di inserire gli studenti disabili in scuole “normali”, allora non dobbiamo avere l’ipocrisia di affiancare loro insegnanti “speciali”, ma dobbiamo avere il coraggio di garantire il loro diritto all’istruzione con insegnanti “normali”; dobbiamo cioè pensare che la specializzazione in didattica speciale sia una risorsa tale che potenzialmente tutti i docenti la debbano acquisire e ben venga, allora, e in quest’ottica, la formazione iniziale e obbligatoria in servizio per tutti, solo se tutti partiamo dalla stessa condizione e abbiamo gli stessi diritti di essere docenti.