È certamente nella memoria collettiva di tutti i fans di Paolo Villaggio, la tremenda gara aziendale di ciclismo nel film Fantozzi contro tutti. Penso che Villaggio, dentro di sé, abbia un vero e proprio “odio” nei confronti dello sport imposto per forza. E ora che dai microfoni sempre provocatori della Zanzara, su Radio 24, si è lasciato andare a una serie di affermazioni deplorevoli e “ignoranti” (nel senso etimologico del termine) sulle Paralimpiadi, Stefano Massaron, in «Il Vostro Quotidiano», ha colto con precisione da cinefilo il nesso tra le attuali idiozie e un passato glorioso di film caricaturali, grotteschi, amari ma con un fondo di pietà umana.
Riporto le sue frasi, trascritte dall’ANSA, giusto per ragionarci un po’ insieme: «La mia non è crudeltà, ma è crudele esaltare una finta pietà. Questo è ipocrita. Sembrano Olimpiadi organizzate da De Amicis con dei “personaggini”. Non fa ridere una partita di pallacanestro di gente seduta in sedia a rotelle. Io non le guardo, fa tristezza vedere gente che si trascina sulla sedia con arti artificiali. Mi sembra un po’ fastidioso, non è divertente». E ancora: «Ce n’é una, cieca, che fa i 200 metri in pista. Dicevano che si allena con due persone a fianco che le dicono dove andare. Tanto vale allora correre con il bastone».
Bene. A questo punto è facile, quasi scontato, indignarsi, prendersela con Villaggio, e trattarlo malissimo, magari pensando che sia in cerca di facile pubblicità (ma davvero non mi pare che ne abbia bisogno) o che sia in una fase terminale del suo lucido pensiero, vista l’età che avanza. È facile, ed è anche giusto reagire, come hanno fatto gli atleti paralimpici e i tanti che in questi giorni stanno seguendo con passione le belle telecronache di RAI e Sky, che danno un’ampia copertura alle gare londinesi.
È facile indignarsi, ma rischiamo di perdere di vista quel pezzetto di verità che sempre, nel paradosso e nella volgarità, si cela e ci interroga. Parto allora da un altro punto, ossia da un commento molto profondo e articolato, scritto per il «Guardian» da Robert Jones, artista e scrittore, una persona disabile di 60 anni. Mi hanno colpito alcuni passaggi: «È il bagaglio che si accompagna alle Paralimpiadi il mio problema, ossia i messaggi subliminali ed espliciti». E più avanti spiega: «È un luogo comune sentirsi dire “se lui è stato capace di fare questo, allora lo puoi fare anche tu”, quasi un rimprovero o un incoraggiamento alle persone disabili. Questo argomento rivela una profonda incomprensione della natura della disabilità in sé. In particolare quando implica una visione dei servizi pubblici di sostegno, e in particolare quando ministri e giornalisti irresponsabili non sanno o non vogliono distinguere tra giovani atleti in piena forma – anche con pezzi mancanti – e la generalità delle persone disabili».
Ecco, questo è un ragionamento profondo e serio. Probabilmente nasce in un clima, quello inglese di queste giornate, in cui l’enfasi mediatica attorno alle Paralimpiadi è davvero molto forte (basta scorrere le prime pagine on line di tutti i quotidiani britannici per cogliere questa elevatissima attenzione). Ma Jones tocca un nervo scoperto, in modo più intelligente e scabroso di Paolo Villaggio.
Anch’io, nel mio piccolo, tanti anni fa facevo sport (insomma, più o meno) anche a livello agonistico, soprattutto il tennistavolo, e fra i miei ricordi indelebili c’è un campionato italiano, a Roma (Acqua Acetosa) quando in semifinale della mia categoria (allora si chiamava 1-C) riuscii a battere nientemeno che il giovanissimo Luca Pancalli, che poi divenne uno dei più grandi campioni paralimpici di nuoto, e ora presidente del CIP (Comitato Italiano Paralimpico).
Io ero un atleta dell’ASPEA Padova (Associazione Sportiva per Disabili Fisici e Non Vedenti per Padova e Provincia), lui del Villa Fulvia di Roma. Poi la pancia crescente e l’insufficienza respiratoria hanno messo fine alla mia gloriosa carriera sportiva, senza rimpianti, ma con qualche medaglia che penso di avere ancora da qualche parte. Ebbene, non ho mai pensato di giudicare la mia vita per questa incapacità di competere nello sport, ma ho sempre ammirato e incoraggiato coloro, soprattutto giovani (ragazzi e ragazze) che attraverso l’attività sportiva sono stati capaci di ottenere il meglio possibile dal loro corpo e dal loro spirito.
Le frasi di Paolo Villaggio purtroppo ci riportano sul pianeta Terra, e rivelano quanta distanza ancora dobbiamo percorrere per arrivare a una via di mezzo, ossia alla corretta collocazione dello sport fra le tante opportunità di realizzazione umana anche per le persone con disabilità.
In effetti, temo che i beceri luoghi comuni dell’attore genovese corrispondano ancora a un pensiero diffuso e magari adesso tenuto a freno, se non per ipocrisia, almeno per buona educazione. Dubito fortemente che di fronte ad alcune prove di atleti con evidenti disabilità fisiche e sensoriali non scattino ancora reazioni e pregiudizi di tipo emotivo. Solo il tempo, e un’altra generazione intera, ci porteranno al di là del guado, in una società capace di includere per davvero tutti, ma proprio tutti.
Ma su un punto dobbiamo forse riflettere ancora (ascoltando il brontolio del british Robert Jones): non esaltiamoci troppo per le imprese dei superatleti con disabilità, pensiamo che magari nello stesso momento altre persone, più deboli, meno seguite, meno inserite in un contesto di servizi e di opportunità, stanno seguendo le medesime gare con un po’ di malinconia, temendo di dover giudicare in modo negativo la propria esistenza, la propria condizione “banale” di persona disabile “normale”.
Lo sport è una vetrina strepitosa delle opportunità e delle potenzialità, e gli atleti paralimpici sono le avanguardie di un movimento che si declina ogni giorno in termini di diritti, di leggi, di solidarietà, di vicinanza attiva. Questi sono i giorni dei campioni. E se Paolo Villaggio non vuole guardare le gare, pazienza. Ce ne faremo una ragione. E continueremo a rivedere i suoi film, rimpiangendo la sua ironia di un tempo.