Rispetto alla recente notizia che per la prima volta in Italia un ateneo, l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha assunto un sordo madrelingua di LIS (Lingua Italiana dei Segni), «per insegnare la propria lingua», ritenendo ciò come «un riconoscimento del contributo della comunità sorda come esperta e protagonista della propria lingua e cultura», credo che almeno su un fatto il comunicato diffuso dalla stessa Università abbia ragione. Sull’annotazione, cioè, che «gli ambienti accademici ove avviene la ricerca linguistica precedono gli organi politici nel riconoscimento della diversità linguistica e culturale».
In questo caso, però, ciò ha fatto sì che quegli accademici, per troppa fretta, siano caduti in una sorta di “pozzo insondabile”, dal quale si sono “salvati” – per ora – i Parlamentari della Camera, evitando a propria volta di cadere e di portare con sé “nel pozzo” trent’anni e più di conquiste di civiltà che le persone sorde e le loro famiglie hanno raggiunto, in nome di semplici princìpi umani non negoziabili: innanzitutto il diritto alla parola, l’acquisizione della lingua di tutti («che ci fa uguali», come diceva Don Milani), l’italiano orale, la sola lingua madre. Il LIS, infatti, è un linguaggio , uno strumento il cui ricorso è possibile con la Legge 104/92, nei casi in cui esso si presenti necessario.
Quindici anni di battaglie nella società e presso le Istituzioni sono stati necessari, da parte dei Cittadini con disabilità uditiva e delle loro associazioni, per far cancellare il termine muto [Legge 95/06, N.d.R.]: infatti, in precedenza, la persona sorda veniva registrata come sordomuta, dando per scontato che chi era sordo fosse anche muto. E invece il sordo anche profondo può parlare, a meno che non vi siano problemi al sistema foniatrico articolatorio che ne pregiudichino la possibilità funzionale. La chirurgia, la scienza, i sistemi educativi e la tecnologia hanno fatti passi da gigante, consentendo – tramite le protesi acustiche, gli interventi rimediativi, la logopedia, gli impianti cocleari – di poter udire e parlare, affrancandosi dalla dipendenza dell’interprete a vita, motivando i bambini e i ragazzi verso traguardi e una qualità della vita dignitosa e soddisfacente, certo con problemi, ma superabili.
Oggi, con lo screening audiologico neonatale, si individua se un bambino ha problemi uditivi o se egli ne presenterà; la diagnosi precoce e il monitoraggio dell’evoluzione della patologia consentono poi la protesizzazione, mentre nei casi di non rimediabilità, il ricorso all’intervento per l’impianto cocleare farà in modo che il bambino non venga escluso in un mondo silenzioso, con il rischio di favorire il mutismo.
Purtroppo, nel nostro Paese, l’abbattimento delle barriere della comunicazione non fa ancora parte del bagaglio di consapevolezza degno di una società civile, dal momento che strategie come la sottotitolazione, le lavagne interattive, l’amplificazione a induzione magnetica nei locali pubblici e tanto altro, tutto assai semplice e poco costoso, non rientra ancora nella cultura dei diritti.
Ed ecco che spuntano fuori ritorni al passato, urticanti “ritorni di fiamma”, con la riproposizione degli istituti per sordi, con sogni di “cultura sorda” e di una “lingua identitaria”, etnica, come di un “popolo a parte”, e vanno sempre per la maggiore professioni che “campano sui disabili uditivi”, con lobby e amici vari, e anche gli accademici ci cascano!
Nel caso dell’Ateneo veneziano, il problema non è l’assunzione del professore con disabilità uditiva, il problema sta nel parlare di «lingua madre», nel ritenere che il LIS sia la lingua di tutti i sordi e nel biasimare quei politici che – secondo i professori – non sanno ascoltare i “poveri sordi” che reclamano la loro lingua!
Il problema è il regresso culturale – proprio nell’università – un regresso che si muove verso una “società dello spettacolo”, come la nostra, una società che “fa spettacolo” per venire incontro ai “poveri sordi”. Basti pensare a L’amore è sordo, la recente fiction trasmessa dalla RAI, un prodotto che magari gli accademici di Ca’ Foscari avranno visto di buon occhio, ma che in realtà ha rappresentato la persona sorda come non è più da decenni, del tutto ancorata alla LIS e assai poco “parlante”.