L’edizione dei Giochi Paralimpici disputata a Londra nell’anno di grazia 2012 ha “lasciato il segno”. Mai come in questo caso, infatti, il trionfalismo che sempre accompagna questi eventi (a volte a sproposito) appare giustificato: mai prima d’ora le Paralimpiadi erano state in grado di attirare tanta attenzione, né di catalizzare in maniera così massiccia l’interesse del pubblico.
Al di là dei numeri, che parlano di 2 milioni e 700.000 biglietti venduti (quasi 1 milione in più rispetto alla precedente edizione di Pechino nel 2008), di 164 Paesi rappresentati, di oltre 4.000 atleti partecipanti, di audience televisive altissime e di risultati sportivi eclatanti (110 nuovi primati del mondo stabiliti in due settimane!), a rendere evidente che la quattordicesima edizione delle Paralimpiadi ha segnato una svolta, è la chiara percezione che l’opinione pubblica non solo si sia finalmente “accorta” dei Giochi Olimpici dei disabili, ma ci si sia addirittura appassionata.
Perché durante tutto il periodo di svolgimento delle gare, queste gare venivano guardate e, udite udite, anche commentate dalla gente comune. Insomma, in giro se ne discuteva, si facevano paragoni. Un esempio: durante le giornate paralimpiche una sera sono stato ospite a cena da amici, una coppia con un figlio di dieci anni. Arrivato da loro, in piena “prima serata” televisiva, stavano guardando tutti e tre con grande coinvolgimento le Paralimpiadi in TV!
Certo, proprio la televisione ha avuto un ruolo determinante nell’esplosione dell’interesse nei confronti delle performance degli atleti disabili che gareggiavano a Londra. Ben due emittenti importanti e altamente professionali come RAI e Sky hanno deciso di scommettere forte su questo evento, mettendo in campo risorse ingenti e qualificate e trasmettendo lo sport per disabili come mai era accaduto prima.
Ma sarebbe fuorviante pensare che il rinnovato “appeal” dei giochi sportivi dei disabili sia tutto frutto di un’intensa e finalmente attenta copertura televisiva. Altrimenti sarebbe impossibile spiegarsi quegli impianti sempre incredibilmente pieni, spesso più che nelle gare delle Olimpiadi dei normodotati. Molti degli spettatori televisivi potranno anche essere capitati davanti allo schermo facendo zapping, restando poi conquistati dallo spettacolo offerto. Ma se ogni sera, allo Stadio Olimpico di Londra 80.000 persone avevano scelto di pagare il biglietto per vedere dei disabili fare sport, siamo di fronte a una svolta epocale, a un salto di qualità della pratica sportiva dei disabili, certamente, ma anche e soprattutto a un cambio di passo culturale, a una conquista sociale che issando “a furor di popolo” gli atleti disabili sullo stesso piano di quelli normodotati, ne certifica “de facto” l’uguaglianza anche negli altri settori: lavoro, scuola, tempo libero.
E questa rivoluzione non poteva che cominciare dal Regno Unito e non solo per la tradizionale grande cultura sportiva inglese, ma anche perché proprio da qui, nel secondo dopoguerra, a Stoke Mandeville, era nato il germe del futuro movimento paralimpico. Sport per accelerare la guarigione e il reinserimento sociale dei reduci invalidi di guerra. Aveva visto giusto, l’illuminato dottor Guttmann! [il movimento paralimpico internazionale deve la propria nascita al neurochirurgo inglese sir Ludwig Guttmann, che fu il primo ad avviare alla pratica sportiva i reduci britannici della seconda guerra mondiale i quali, dopo avere riportato lesioni midollari, venivano ricoverati appunto presso la Spinal Injuries Unit di Stoke Mandeville, in Gran Bretagna, N.d.R.].
Se ne sarà forse reso conto anche Paolo Villaggio, il popolare attore comico genovese, che a Giochi appena iniziati si era lasciato andare (nemmeno voce isolata, per la verità) a dichiarazioni quanto meno sconcertanti, che parlavano delle Paralimpiadi come di «spettacolo triste», «esaltazione delle disgrazie», di gare che «non andrebbero mai trasmesse». Ma non abbiamo avuto nemmeno il tempo di indignarci, perché gli atleti – azzurri e non – hanno sùbito cominciato a dare tali e tante prove di “normalità”, anzi di “supernormalità”, che ogni pregiudizio è scivolato via come pioggia sull’asfalto bagnato. La galleria dei personaggi è vasta, assortita e forte, decisamente forte.
Si va dall’atteso Oscar Pistorius, stella indiscussa, una sorta di “eroe dei due mondi”: primo a cimentarsi da disabile nella Olimpiade degli “abili”, ma qui a Londra stella insidiata, a tratti oscurata (dal brasiliano Oliveira, con polemiche), ma infine ancora splendente, nell’ultima gara in programma, i 400 metri, stravinti tagliando il traguardo a braccia spalancate, in una sorta di abbraccio planetario.
Si passa a Esther Vergeer, tennista olandese che vanta un record di 470 partite consecutive vinte (una sola sconfitta dal 2001) e 4 titoli paralimpici in singolare. E Patrick Anderson: il Michael Jordan del basket in carrozzina non è americano, ma canadese, ma che “numeri”, ragazzi! C’è poi l’idolo di casa, il britannico David Weir: oro negli 800, 1500, 5000 e maratona.
Poi, un personaggio che ci ha particolarmente colpito: la brasiliana Terezinha Guilhermina, una che già dal nome ispira simpatia. Ma lei, non vedente e vincitrice con la sua guida dei 200 metri T11, ama abbellire la sua tenuta da gara (mascherina compresa) con mille coloratissimi fregi. Lo fa, dice, per divertire i bambini e per sembrare a sua volta bambina: per attirare l’attenzione sui tanti problemi dei minori nel mondo. Mica sui suoi. Chapeau.
E poi il variegato e lungo elenco dei nostri campioni: 9 ori e 28 medaglie in totale (stesso bottino finale delle Olimpiadi dei normodotati). Alex Zanardi e Annalisa Minetti, chiaramente. Straordinari. Certo, facilitati nell’ottenere la ribalta mediatica dalla popolarità precedentemente acquisita, ma in grado di compiere imprese autentiche.
Quindi ecco i personaggi prima sconosciuti e che la kermesse di Londra ha imposto all’attenzione per le loro vittorie, per il coraggio e l’agonismo straripanti: Oscar De Pellegrin, portabandiera all’apertura, nell’arco in carrozzina; Cecilia Camellini, non vedente, nel nuoto (2 ori e 2 bronzi); Martina Caironi (amputata) nei 100 metri e Assunta Legnante (ex campionessa europea di getto del peso ora non vedente); Ivano e Luca Pizzi nel ciclismo (fratelli, atleta non vedente e guida, con il loro tandem).
Ci piace raccontare in particolare le storie dei volti sorridenti di Camellini e Caironi. La prima, Cecilia, non vedente dalla nascita: «La mia parola preferita è: proviamo», e alla domanda «cosa ti piace fare nel tempo libero?», risponde candidamente «leggere, andare a mangiare la pizza con gli amici, guardare la televisione… [dice proprio “guardare”, N.d.A.]». Insomma, più normale di così… ma in vasca, devastante.
E la Caironi? Che personaggio… dopo il traguardo sprizza gioia da tutti i pori, così splendidamente “svarionata” da non rendersi nemmeno conto che oltre ad aver vinto, in rimonta, la sua gara, i 100 metri in pista (categoria T42), ha anche frantumato il record del mondo. Martina, bergamasca, solo cinque anni fa era una ragazza come tante, poi un incidente in motorino le ha portato via la gamba sinistra: ora non mostra alcun rimpianto, nessuna tetraggine per ciò che non è più. Solo una grande, immensa gioia… quasi stupore di essere anche lei protagonista, tra gli interpreti di questa grande festa.
Una festa alla quale spiace non abbia ancora potuto partecipare lo sport per il quale chi scrive ha speso molto impegno e che ancora pratica, da “amateur” disabile neuromuscolare: il wheelchair hockey (hockey in carrozzina elettrica). Ma verrà il tempo… Londra ha insegnato che quando arriva il momento giusto, le cose succedono. E comincia la festa.
Una festa che ha concentrato l’attenzione del mondo intero su tutti questi atleti “diversamente abili”. Anzi, che dico, stupendamente abili.