Qualche giorno fa, in uno dei miei soliti giri cultural-culinari, ho visitato la mostra di Graham Vivian Sutherland presso la Fondazione Magnani Rocca a Mamiano di Traversetolo (Parma), location non proprio accessibilissima, con un piano della mostra non raggiungibile.
Nelle sue rappresentazioni pittoriche, l’artista inglese trasforma rami contorti dei boschi della sua Inghilterra in figure zoomorfe e viceversa, mescolando il regno animale, vegetale e minerale – i critici credo abbiano definito questo suo tratto caratteristico «cosmogonia di forme in metamorfosi» – così che un tronco diventa una civetta e un cesto di catene un nido di serpi. Mi sono quindi domandato come avrebbe raffigurato me e la mia sedia a rotelle. E soprattutto come sarebbe riuscito a rappresentare il rapporto di amore e odio che mi lega a questa poltrona con le ruote.
Il gioco è diventato curiosità e – non potendo chiederlo al pittore, morto da oltre trent’anni – sono andato a spulciare sul web alcuni artisti che hanno rappresentato quella che oggi chiamiamo disabilità e che nel tempo ha avuto accezioni non sempre positive.
Mi sono apparse quindi tante immagini di quelli che venivano definiti i “paralitici”, deformi e caricaturali, e di nani trasformati – per il diletto di reali e nobili – in giullari e attrazioni da circo [si veda a tal proposito, cliccando qui, la trattazione di Gabriella Cetorelli Schivo, intitolata Nani dal mondo antico. Aspetti storici, archeologici e sociali dell’acondroplasia nell’antichità, e anche, nel nostro sito, le due riflessioni di Claudio Arrigoni qui a fianco indicate, N.d.R.].
Le persone con acondroplasia (una delle forme più diffuse di nanismo), ad esempio, abbondano in molti quadri. Mi viene in mente il Nano seduto, il Nano Francisco Lezcano, il Nano di corte don Antonio el Inglés di Diego Velázquez. Oppure Il Nano (il quadro è conosciuto anche come Lo Storpio) di Jusepe de Ribera, detto detto lo Spagnoletto. E anche qui ritorna lo stigma della società: la tela sembra fosse stata commissionata inizialmente per un cabinet de curiosités, insieme ad altre opere raffiguranti patologie rare (come Il ritratto di Maddalena Ventura o Il mostro bambino). Curiosità morbosa che trasforma le patologie in oggetti da collezione.
Scherno, curiosità, diffidenza o forse un atteggiamento pietistico? Tutto andrebbe visto con gli occhi e la consapevolezza che avevano ai tempi in cui furono dipinti e commissionati. Oggi possiamo solo parlare delle emozioni che ci trasmettono.
Riguardo, sul web, gli affreschi di Masaccio della Cappella Brancacci, nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Firenze. Il pittore ha tratteggiato quelli che una volta venivano definiti gli “infermi”, prostrati ai piedi di un arcigno San Pietro che li risana. Penso alla concezione medioevale secondo la quale la deformità e la bruttezza esteriore erano il riflesso di una stortura e cattiveria interiore e mi vengono in mente le creature mostruose di alcuni dipinti di Hieronymus Bosch. Il brutto e deforme che diventa anche la rappresentazione del cattivo.
Rifletto ad occhi aperti sulla violenza, sul disagio, sul trauma, sul travaglio interiore che forse nessun pittore è riuscito a trasportare sulla tela come ha fatto Frida Kahlo (nata con spina bifida, la grave malformazione congenita che determina paralisi motoria e sensitiva degli arti inferiori). Guardando il suo La colonna spezzata, penso alle placche che sostengono la mia schiena e mi vengono i brividi. Gli stessi che provo vedendo sulla tela la sedia a rotelle rappresentata da Frida in Autoritratto con il dottor Farill.