C’è una nuova violenza nell’aria. Ci riguarda. Tocca un po’ tutti coloro che per necessità o per attenzione abituale si occupano di welfare, di diritti e di servizi. Le cronache quotidiane, le conversazioni private, le storie che conosciamo da vicino ci raccontano di una progressiva – quasi ineluttabile – “questua sociale”, pubblica ma anche individuale, per ottenere prestazioni o servizi che fino a ieri consideravamo patrimonio comune, acquisito non solo per legge, ma perché giusto in sé.
Non sono uno studioso di economia e neppure di diritto, e dunque avrei bisogno del supporto e della documentazione competente per riempire di sostanza una mia impressione, per altro forte e netta. Si fa strada un modo di argomentare – del tutto trasversale politicamente e culturalmente – che tende a dare forza e valore a tutte quelle azioni positive che portano comunque a un risparmio, a una minore spesa, a una riduzione dei costi presenti e futuri. Mi si dirà: è giusto! È importante in tempi di crisi puntare al risparmio, alla spesa oculata, al contenimento degli sprechi. Verissimo.
Ma è un argomento che andrebbe rigorosamente staccato dal tema dei diritti essenziali. Se un Comune deve tirare la cinghia per i servizi sociali, non è che per questo motivo il diritto all’assistenza domiciliare, all’assistente educativo a scuola o al trasporto diminuisca in sé. Il diritto resta inalterato, solo che diventa di fatto non esigibile, almeno non come prima.
E qui inizia il calvario delle persone, delle famiglie. Una corsa affannosa a cercare di mantenere in piedi la propria esistenza, la rete dei servizi essenziali attorno ad esempio a una persona con disabilità o a un anziano. È tutto un chiedere, un fare ricorso, un protestare, un disperarsi, un indignarsi. Una china della quale non si vede la fine, anzi. È una forma di violenza, per certi versi inaudita, perché va a toccare la dignità delle persone, la rispettabilità anche sociale delle famiglie in difficoltà.
Trovo ad esempio curioso il ragionamento che ho letto di recente in un’acuta analisi di Giorgio Fiorentini, dell’Università Bocconi di Milano, a proposito di uno studio che dimostra come le persone con disabilità che fanno sport «costano meno in termini di salute», perché si ricoverano con minore frequenza e ricorrono meno ai servizi onerosi di riabilitazione funzionale. La conseguenza “morale” è che lo sport non diventa più una libera scelta fra tante, un’opportunità da cogliere se lo si desidera o comunque se si hanno le attitudini necessarie. Lo sport diventa “utile economicamente” e quindi va diffuso per questo.
Ho letto spesso persone con disabilità argomentare – in assoluta buona fede e con buon senso pratico – che un progetto di vita indipendente, a casa propria o comunque non finendo in servizi residenziali per disabili, è preferibile rispetto alla tradizionale assistenza «perché costa meno». Il che è sicuramente vero. Ma il punto è che il diritto primario è quello alla vita indipendente. Poi si valuteranno i costi migliori, e il rapporto fra efficacia e convenienza.
E ancora, nel campo degli ausili per disabili, durante un recente convegno per i trent’anni dell’Ausilioteca di Bologna, ho sentito più volte una preoccupazione analoga: sappiamo bene che gli ausili, specie quelli tecnologici, sono fondamentali per dare strumenti di vita e di comunicazione alle persone con disabilità. Ma anche qui la “spending review” conduce a forzature pericolose. È la cultura del “pressappoco”: un ausilio vale più o meno come l’altro, quindi è “giusto” prescrivere e autorizzare solo quello che costa meno. L’invasione delle carrozzine dall’Estremo Oriente, tanto per dire, è uno dei frutti avvelenati di questa dissennata convinzione. Basso costo, ma spesso anche infima qualità. Ma a chi interessa?
E qui torniamo al tema di coloro che potremmo chiamare “mendicanti di diritti”. È insopportabile una società che nei confronti dei più deboli, e di chi ha bisogno di strumenti appropriati per tutelare i propri diritti di cittadinanza, usi sempre e comunque l’argomento del denaro e la domanda: «Sì, ma quanto ci costa?». Che poi, cinicamente, diventa: «Ma tu, quanto ci costi?».