Credo che la metafora della matassa che rimanda al filo comune – il già famoso “filo rosso” – sia la scelta giusta per indicare la complessità vera e le complicazioni artificiose che rendono intricata e apparentemente impossibile l’impresa di non rendere aggrovigliato il filo comune del BenEssere delle persone con disabilità uditiva. Come però scrivevano su queste pagine anche Giovanna Palma e Marco Luè, bisogna capirsi e comprendere e pertanto mi chiedo come si possa favorire e volere veramente un dialogo se il punto di partenza è: «Devi essere sordo per capire»!
Lo possono dire i ciechi, i balbuzienti, e anche i… bassi di statura! Ognuno di noi può dire «tu non puoi capire». E anche gli udenti possono dire a Marco Luè «devi essere udente per capire». Ma al mondo ci siamo proprio per cercare di capirci! E siccome con questi presupposti non ci può essere inclusione, penso che aggrapparsi a queste convinzioni come piattaforma relazionale, denoti una volontà diversa dalla ricerca dell’inclusione.
A Marco Luè mi sento insomma di dire che anche «tal nessuno che rappresenta se stesso» dev’essere protagonista della propria vita e avere il rispetto che ogni persona merita. Come reagirebbe, infatti, il signor Luè, se gli venisse rivolta l’affermazione: «Il signor De Luca non chiarisce se è sordo egli stesso o se è il familiare di un “sordo impiantato”, ma in quest’ultimo caso ritengo che egli sia stato indottrinato dai “luminari dell’impiantologia”, ma in modo assai distorto»? Gli farebbe piacere essere considerato “eterodiretto”?
Il Signor Luè è diventato sordo in età evolutiva e quindi dopo l’apprendimento della lingua. Allora qualcuno un po’ pignolo potrebbe dire che egli «non può capire i sordi profondi nati sordi, in quanto non sono sicuramente la stessa cosa», e allora «devi essere sordo nato sordo profondo per capire…». Proseguendo su questa strada, ognuno riuscirebbe a capire solo se stesso, forse…
Sulla questione riguardante il “sordomutismo”, poi, inviterei il mio interlocutore a riflettere con minore accanimento ideologico. Voglio comunque soddisfare la sua curiosità: sono sordo profondo dall’età di 32 anni e per più di tre anni sono rimasto nel silenzio totale, non avendo la possibilità di rimediare con le protesi, inefficaci nel mio caso. Mi si creda, per una persona non nata sorda, non è una situazione facile.
Nel 1987, poi, sono stato uno dei primi in Italia a sottoporsi all’intervento per impianto cocleare. Infatti, sebbene in America fosse già stata maturata una certa esperienza, in Europa, e in particolare in Italia, si può dire che fossimo ancora a livello sperimentale. Si usava un impianto del tipo monopolare, cioè con un solo elettrodo ad attivare i nervi acustici. Oggi ne esistono di diversi a seconda dei modelli e si possono anche superare i ventiquattro elettrodi. Riuscivo a percepire rumori e suoni e, con l’aiuto del labiale, a comprendere le parole.
Nel 1997, quindi, ho fatto un secondo intervento per sostituire il vecchio impianto e le cose sono cambiate in meglio; niente a che vedere con quanto si riesce a ottenere oggi con i nuovi processori, ma per me va bene così, rimango e sono sordo profondo, fino a quando accendo il processore.
Nel 1998, infine, insieme ad altri utilizzatori di impianto cocleare, parenti e amici udenti, abbiamo costituito l’APIC (Associazione Portatori Impianto Cocleare) e ci battiamo per la conoscenza di questo dispositivo, un’endoprotesi che ridà la possibilità di sentire e che costitusce l’udito per i bambini nati o diventati sordi nei primi mesi/anni di vita.
Mi ero ripromesso di essere sintetico, ma non credo di riuscirci, anche perché cerco sempre di “lavorare dal di dentro”, ovvero, quando possibile, di mettermi nella prospettiva di chi non la vede come me, cercando di capire. Non sempre, però, è facile e lo sto sperimentando anche in questa occasione di dibattito.
Leggo infatti che con il mio precedente intervento avrei giudicato l’assunzione di un professore sordo come «un danno». Non è così, naturalmente, perché io non mi riferivo certo a quello, ma alla questione della madrelingua LIS [Lingua Italiana dei Segni, N.d.R.] e alla richiesta del riconoscimento della stessa LIS come lingua di tutti i sordi, ironizzando sull’“essere più avanti”, in questa strada, da parte dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, rispetto al Parlamento.
Quanto scrive la Signora Giovanna Palma non mi suscita contrarietà, non vi leggo asprezza, ma lo vedo come un “marcare le posizioni”, un “perimetrare il territorio” per difenderlo dagli attacchi furibondi e antilibertari. Alla signora Palma chiedo però dove abbia percepito e da cosa nasca la sua convinzione che chi scrive si sia assunto il ruolo di “paladino dell’abbattimento della libertà di espressione in LIS”, dell’“abbattimento dei segni e dei gesti”. Rileggendo infatti quanto avevo scritto, non troverà neanche un’allusione velata rispetto a questo. Io parlavo del diritto alla parola, del diritto a essere uguali, senza pensieri integralisti né pregiudizi.
La Signora Palma presenta il “mondo dei segnanti” come una “valle di consapevolezza” e di “pacifico amore verso tutti”, dove le rivendicazioni, le richieste legittime vengono condotte in modo civile e non criminalizzante, non offensivo e in alcuni casi non “terrificante”. Basta però navigare un po’ nel web per capire che purtroppo la realtà è molto diversa e mi dispiace veramente, perché condivido quanto da lei scritto e le analisi proposte, sulle varie problematicità e sulle possibili soluzioni.
Ci vorrebbero ancora molte pagine a disposizione per cercare di chiarire il mio pensiero, ma mi rendo conto che non è possibile, almeno in questa sede. Tra le questioni allora che mi preme toccare, ne indico almeno una che ritengo fondamentale.
Si tratta della libertà di scelta, “argomento principe” del contenzioso e che la Signora Palma richiama spesso nel suo scritto. Gentile Signora Palma, nessuno attenta alla libertà di scelta, né a quella espressiva, figuriamoci se lo si pensa di fare per le persone adulte. Ecco – lei dirà – allora lo si può fare per i piccoli, per i bambini? Si renderà conto che posta così, la domanda non è corretta, per il semplice motivo che i bambini non scelgono, non hanno alcuna possibilità di farlo, da qualsiasi visuale si guardi la questione.
La scelta dei genitori è un atto obbligato rispetto alla salute in primis, oppure si vuole negare che la sordità appartenga alla categoria dei deficit sanitari? Quindi, attraverso il protocollo che richiamavo nel testo e che ha aperto questo dibattito [screening audiologico neonatale – diagnosi precoce – monitoraggio dell’evoluzione della patologia, N,.d.R.], si deve esplicitare la scelta per favorire la parola, non certo obbligare a un solo metodo, almeno per parte mia non la penso così.
Lei parla del bilinguismo come di un «diritto paragonato all’apprendimento di altre lingue». D’accordo, ma io non conosco un bilinguismo – e mi scuso se sbaglio – che abbini oralismo e LIS. Da decenni, infatti, quello che si incensa e che si porta come esempio è l’esperienza della scuola di Cossato (Biella) dove il bilinguismo si riduce a LIS e italiano scritto, l’oralismo è un’altra cosa [ci si riferisce al progetto di bilinguismo “Lingua Italiana – Lingua Italiana dei Segni (LIS)”, iniziato nella Scuola per l’Infanzia Statale di Cossato nel 1994/95, N.d.R.].
Se il metodo oralista non ha sortito effetti positivi – come scrive Giovanna Palma – forse è meglio capire il perché, come è stato insegnato, quali strutture funzionano, quale convinzione reale ci sia dietro e quanto sia pesata in questi ultimi decenni la “cultura del LIS” sui logopedisti, quanta sovraimportanza sia stata data alla presenza degli interpreti e alle ricadute in termini economici/lavorativi attorno alla disabilità uditiva.
No, non c’è alcuna volontà, da parte mia, di “tagliare i segni”, nessuna paura dei segni, sono per la garanzia a far ricorso al linguaggio LIS per chi lo vuole e lo usa. Si dice «miglioriamo la Legge 104/92»: ben venga, ma resto convinto che il riconoscimento del LIS come “lingua di tutti i sordi” sia anacronistico, nonostante alcuni Enti Locali abbiano approvato delle leggi di promozione in tal senso, a mio parere per un malinteso senso di aiuto verso i “poveri sordi”.
Ringrazio questa testata per lo spazio concesso e rinnovo la mia disponibilità per ulteriori discussioni a Giovanna Palma e a Marco Luè.
Presidente dell’APIC di Torino (Associazione Portatori Impianto Cocleare).
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