Ho seguito con attenzione gli interventi apparsi nei giorni scorsi in Superando, che hanno preso spunto dalla notizia dell’assunzione di una persona sorda madrelingua di LIS (Lingua Italiana dei Segni), per insegnare la propria lingua all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
La mia opinione su quanto finora scritto su queste pagine è che la contrapposizione che si vuole rappresentare tra “sordi oralisti” e “sordi segnanti” non solo sia inutile, ma anche dannosa. Tante cose, del resto, si potrebbero dire pro o contro, da una parte o dall’altra, ma vogliamo provare a stare dalla stessa parte, pur con opinioni diverse?
Una cosa mi sembra innegabile: negli ultimi trent’anni l’audiologia ha compiuto passi tali da cambiare profondamente la storia della disabilità uditiva. Siamo passati dal “sordomuto”, termine comunemente usato in quell’epoca, che univa il deficit uditivo alla sua diretta conseguenza della mancata acquisizione del linguaggio, al sordo… e basta. Questo, però, succede nella realtà degli addetti ai lavori e nei testi normativi di assistenza ai disabili uditivi, mentre non è scomparso nell’idea che la gente ha del sordo, considerato ancora un “sordomuto”.
La causa di ciò, bisogna dirlo, è anche la forte rappresentazione che viene fatta – anche con grandi impieghi mediatici – del sordo che utilizza la comunicazione mimico-gestuale; chi può dire infatti di avere visto un’uguale rappresentazione di un sordo che utilizza il linguaggio orale?
Va bene, dunque, la LIS per chi vuole usarla, non va bene volere una legge che riconosca la Lingua Italiana dei Segni e lo status di “minoranza linguistica sorda”. E non va nemmeno bene, per sostenere questa legge, massimizzare la rappresentazione di cui dicevo.
Personalmente, la soluzione che propongo è quella di migliorare quanto più possibile la conoscenza della realtà attuale della sordità, lasciando che ognuno scelga la strada che intende percorrere, senza avere la pretesa di rappresentare tutti.