È stato emozionante vedere, insieme, gli atleti delle “due Olimpiadi” (quella “normale” e quella “a-normale”), ricevuti festeggiati premiati da Giorgio Napolitano. Infatti, lo spettacolo del 19 settembre al Quirinale, trasmesso in diretta dalla TV, è stato insieme meraviglioso e significativo (“politicamente” parlando); ma è stato soprattutto indicativo del verso dove va? la Cultura dell’Inclusione Integrazione Valorizzazione delle Persone con disabilità.
Il “miracolo” – com’è successo tante altre volte, quando si è trattato di fatti accadimenti eventi eclatanti – lo ha compiuto lo Sport. Lo Sport con la S rigorosamente maiuscola: quello che, tra l’altro, accomuna integra affratella i Popoli le Persone le Genti e, fondamentale, attua il principio di trasparenza che è, com’è noto, il sale della Democrazia (insieme col Principio di uguaglianza).
Perché? Ma perché il Presidente della Repubblica, insieme ai responsabili “strategici” delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi di Londraduemiladodici, Gianni Petrucci (Presidente del CONI – Comitato Olimpico Nazionale Italiano. Ha detto, tra l’altro: «Le barriere sono superate. Qui c’è un mondo unico: questa Italia s’è desta») e Luca Pancalli (Presidente del Comitato Italiano Paralimpico) hanno dichiarato e dimostrato, concretamente, una visione nuova diversa altra, rispetto a quella del passato, che era, per svariate ragioni, “divisoria” “emarginante” “segregante”…
Le parole del Presidente Napolitano, come al solito, sono state sagge e sibilline. Eccole: «Sappiamo fare gruppo più di quanto noi stessi pensiamo, anche se abbiamo l’abitudine di parlare male di noi. I successi degli atleti olimpici si sono integrati con quelli paralimpici: loro hanno dato una grande lezione di vita e morale. Tutta l’Italia l’ha capito, finalmente abbiamo eliminato la distinzione di sport minore».
Una nuova Epoca, dunque, e un nuovo Umanesimo, per la Cultura della disabilità e delle Persone disabili? È presto per dirlo ed è difficile immaginare quanto la Politica si sintonizzerà con le scelte culturali, convinte, e con le scelte civili promananti anche da documenti internazionali importanti come, a mo’ d’esempio, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. La quale, rispetto ad altre Carte internazionali, presenta un significativo valore aggiunto, in quanto integra, tra l’altro, il quadro giuridico esistente per l’effettiva attuazione del citato Principio di uguaglianza. Sotto questo profilo, difatti, la Convenzione considera la Persona a tutto tondo, sia dal punto di vista psico-fisico sia dal punto di vista intellettivo. Così come i bambini, le donne, i migranti…, anche le Persone con disabilità sono tutelate da uno “strumento” internazionale giuridico vincolante, che non si limita a garantire (come tante volte, nel passato, solo sulla carta…) i diritti, ma insiste e delinea una garanzia su misura diversificata…
Per la cronaca: la Convenzione, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, è stata ratificata dal Parlamento italiano con la Legge 18 del 3 marzo 2009.
Tuttavia, le parole sono pietre, meglio: macigni. Ben lo sappiamo noi che abbiamo scelto, quale strategìa esistenziale di Senso, di dedicarci sostanzialmente agli altri (e in particolare alle Persone disabili), con rispetto abnegazione passione coraggio orgoglio… Da circa quarant’anni.
Pertanto, sotto la sobria luce dell’Etica e della Scienza, della Cultura e dell’Esperienza, esprimiamo in punta di piedi – su un oggetto duro di ricerca – il nostro pensiero, che è sintesi del lavoro professionale e competente svolto nella Scuola d’Italia, come docente, come Capo d’Istituto e come Ispettore tecnico-Dirigente.
La “questione” è semplice e complessa insieme, facile e difficile, chiara e scura. Ed è la seguente: «Meglio non avere le gambe e vincere come Oscar Pistorius, o è meglio averle e magari non vincere?». Ancora: «È meglio non avere le braccia ed essere Simona Atzori – ballerina stupenda che dice: “La femminilità è questione di baricentro. Abbracciare? Lo faccio con le gambe e, così come ha detto Wojtyla, mi piaccio come mi ha ‘disegnata’ Dio”, o è meglio avere le braccia e vivere la propria vita in Società?».
Insomma, solo da un’intesa vera onesta serena, può nascere crescere svilupparsi una Civiltà, con la C rigorosamente maiuscola. E cioè, il dar vita sviluppare mantenere proiettare, al livello più alto possibile, liberamente democraticamente pluralisticamente, «il complesso delle strutture e degli sviluppi sociali, politici, economici, culturali che caratterizzano la società umana».
Ciò precisato, manicheisticamente chiediamo: «È meglio Atzori-Pistorius “vincenti” con disabilità, o è meglio essere Persone “perdenti” senza disabilità, con braccia e gambe?». La risposta non è facile, né univoca tout court.
Tuttavia, forse ci aiuta a fare un minimo di chiarezza chi la disabilità ce l’ha, evidente (più o meno), sulla propria pelle (in genere, citiamo, da anni e dappertutto, a proposito di questa tematica/problematica delicata spigolosa suggestiva, i nostri Amici Tillo Nocèra e Nunzia Coppedè [Salvatore Nocera, vicepresidente della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, persona ipovedente e Nunzia Coppedè, presidente della FISH Calabria, persona in carrozzina, N.d.R.]) e, pertanto, la testimonianza risulta assolutamente credibile (anche se un punto di vista di Persona disabile può essere “criticato”, pertinentemente, a nostro parere, solo e soltanto da un punto di vista di un’altra Persona/e disabile/i…).
Ci aiuta, probabilmente, Luca Pancalli, quando sostiene – e lo condividiamo al cento per cento – che «il linguaggio che diventa sostanza non deve nascondere la realtà».
E fa chiarezza il giornalista Claudio Arrigoni, quando sostiene: «A me piace naturalmente dire persone con disabilità o persona disabile e non utilizzare l’aggettivo al posto del sostantivo: usare disabile significa confondere una parte con il tutto. Sono convinto che la terminologia sia importante e che riesca a rompere delle barriere culturali che diventano anche sociali. Detto questo, è chiaro che la sostanza debba prevalere sempre. La disabilità fa parte della realtà e non è nascondendola che si risolvono i problemi. Non mi vergogno della mia disabilità. Persone che usano il termine disabili hanno atteggiamenti rispettosi: questo trovo sia fondamentale».
Ci aiuta e fa chiarezza, infine, un altro giornalista, Alessandro Cannavò («Corriere della Sera Salute», 28 agosto 2012), quando riflette e scrive: «Si sa cosa significa la parola disabile. Che qualcosa non funziona. Ti piacerebbe che ti definissero così? Se vuoi usarla, la decisione è tua. Ma prova ad abbandonarla. Difficile all’inizio, ma val la pena di provare. (…). SEDIA A ROTELLE – Ad alcuni potrebbe sembrare una questione di lana caprina ma il dibattito sul linguaggio appassiona, come dimostrò lo scorso aprile il successo di un post di Claudio Arrigoni sul blog del Corriere “InVisibili”. Arrigoni citava, tra l’altro, il racconto di Aimee Mullins, una delle più grandi spinter paralimpiche, amputata alle gambe come Pistorius, che dopo una ricerca sul dizionario di sinonimi della parola disabile commentò desolata: “Sembrava che io non avessi nulla di positivo”. Eppure l’evoluzione c’è: abbiamo cancellato “spastico” (oggi ci fa orrore), stiamo dimenticando, per fortuna, “handicappato”. Ma diciamo (e scriviamo, noi giornalisti) “costretto alla sedia a rotelle”, senza pensare che per chi non può usare le gambe la carrozzina è sinonimo di libertà. Insomma, senza cadere nelle ossessioni da politicamente corretto, si può ancora alzare l’asticella».
Chiudiamo con Franco Bomprezzi. Non dopo avere sottolineato, ancora, la difficoltà di andare verso un linguaggio comune, improntato, con convinzione e con consapevolezza, alla Civiltà della com-prensione e alla Civiltà del con-tenere.
Ieri, già Terenzio insegnò, ma anche Seneca e Cicerone (e oggi: Edgar Morin e Zygmunt Bauman) che: Homo sum: nihil humanum a me (mihi) alienum puto (“Sono un uomo: niente che capiti a un uomo considero a me estraneo – Sono un uomo: nulla di ciò che è umano mi resta estraneo”).
In quest’ottica, Bomprezzi (affetto da osteogenesi imperfetta, che lo costringe a stare su una sedia a rotelle) afferma il 28 agosto: «Da giornalista tendo a scrivere nel contesto di un articolo anche “persone disabili”, perché penso che il contesto, corretto e rispettoso, sia chiaro e coerente. Le parole sulla disabilità si logorano perché rimane appiccicata una connotazione negativa. Quando sarà definitivamente superata questa barriera, le parole dureranno più a lungo, e non sarà così importante discuterne. Per ora, purtroppo, la questione è tutt’altro che oziosa. Sul “diversamente abili” sono d’accordo». «Ma non c’è alcun problema a specificare – sostiene ancora Bomprezzi il 3 settembre – la disabilità quando è funzionale ad un servizio che si sta cercando; quello che è scorretto è giudicare, in termini generali, la persona dalla sua disabilità».
La ripetiamo, l’esperienza di Aimee Mullins, un’atleta senza gambe come Pistorius, «una delle più grandi sprinter paralimpiche», che narra di una sua ricerca sul vocabolario, per trovare i sinonimi di disabile. Sconcertata e affranta dichiara: «Sembrava che io non avessi nulla di positivo»… Altro che D.F. (Diagnosi Funzionale), P.D.F. (Profilo Dinamico Funzionale), P.E.I. (Piano Educativo Individualizzato); altro che I C F (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, 2001)…
È terribile! Evidentemente ci sono ancora mondi umani diversi, che non si conoscono si sfuggono si boicottano; probabilmente, c’è un bisogno grandissimo di “fare”, diffusamente e coscientemente, lo strumento-testa, per ricordare Aristide Gabelli e, prima ancora, Michel de Montaigne e, oggi, Edgar Morin, con la sua, vincente convincente fondante, testa ben fatta: critica esplorante problematica (e non testa ben piena, quella che si ritrova abbondantemente, nel nostro tempo, posseduta dalle Persone, forse, sino al novanta per cento…).