Leggendo l’intervento di Francesco Fusca, recentemente pubblicato su queste pagine [“C’è bisogno dello strumento-testa”, N.d.R.], vien da riflettere sul frenetico movimento di idee, opinioni, valutazioni e quant’altro, che nei “salotti culturali” anima di recente le nostre (di noi persone con disabilità) esistenze, circa l’esatta terminologia linguistica del nostro stato di disabilità. Con l’implicazione a volte diretta, altre indiretta, di personaggi sportivi e artisti con disabilità, che purtroppo però rappresentano una unicità. Come se per parlare del consesso umano, si parlasse solo delle molto sparute persone che eccellono nei campi sociali, tralasciando la restante moltitudine.
Oltre a questa bizzarria, io grave disabile motorio affetto da SLA [sclerosi laterale amiotrofica, N.d.R.], dopo quarantacinque anni di vita “normale”, posso affermare con tutto me stesso che la disabilità è una condizione di vita non libera, non scelta, che anche volendo (e posso assicurare che a volte lo vorrei con tutto me stesso), non posso né sottacere né allontanare.
Barriere insormontabili, emolumenti pensionistici che rasentano l’elemosina – nel senso letterario -, la necessità di chiedere sempre perché ci sia concesso, il bisogno di dimostrare sempre la nostra disabilità, l’essere additati e non essere rispettati nella nostra dignità.
Tante volte ho assistito e assisto a dibattiti, trasmissioni televisive sulla disabilità, anche con persone disabili (la cui presenza avverto più come “prova” che come “partecipazione protagonista”), dove la cosa che più offende la mia Anima e il mio Intelletto è constatare che la cosiddetta “nomenklatura sociale” (esimi studiosi, professori, politici, amministratori e organi d’informazione) stabilisca – e decida di conseguenza – come “l’Io Disabile” si senta e viva psicologicamente. E raramente il bersaglio è centrato.
Personalmente non avverto l’orgoglio di essere disabile, perché vorrei non esserlo, ma non posso. Esula completamente dalla mia volontà e dal mio raziocinio. Ho contratto una “unione forzata”, non voluta, non richiesta, mai desiderata, con una malattia che discrimina tanto quanto la benpensante e illuminata Società. E il bello è che non potrò mai divorziare da essa.
In tale contesto, per me, Normalità è l’Umanità intesa con il Vivere, il Morire, il Camminare, il Vedere, il “Manufare”, il Mangiare, il Bere, il Parlare, il Sentire, il Pensare, che costituiscono condizioni necessarie e indispensabili che non vengono mai messe in discussione in quanto sono. Forse sono limiti conseguenti alla nostra condizione di caducità e di finitezza, ma è cosi.
Ciò che non viene compreso in questo parametro, cozza con il nostro limite mentale ed emozionale aprioristico e viene catalogato come “non normale”.
Ma ciò che mi ferisce – e dove mi sento di “urlare” – non è tanto di essere catalogato come “non normale”, quanto di sentirmi circondato da sguardi e atteggiamenti ipocriti, che servono solo ad acquietare l’altrui Coscienza.
Sono un disabile e come tale – anche avendo perduto un solo parametro di quelli indicati sopra – uscito dal concetto di normalità. Voglio quindi essere considerato per quello che sono e non per quello che vorrei che gli altri vedessero. Non mi sconvolge assolutamente essere disabile, “non normale”, “handicappato” (sono parole), ma mi ferisce profondamente essere nascosto, compatito, inascoltato o peggio ascoltare la Norma che parla e pontifica sulla “DisNorma”, senza averne le sensibilità e emotività.
Ho la sensazione, vissuta e profonda, che la “categoria” (e mi si perdoni tale classificazione) delle persone con disabilità sia alla continua ricerca di una propria identità, che sembra avere smarrito. Infatti, le vite, le azioni e le vicende di persone con disabilità narrate e rappresentate sia a livello istituzionale che dalle TV generaliste e dagli altri organi d’informazione, si incentrano quasi sempre – malauguratamente – su chi rappresenta una “specificità nella disabilità”, come a dimostrare la propria “eccezionalità” nella disabilità stessa.
La continua e sola rappresentazione di limiti estremi ad opera di sportivi disabili, di specificità di artisti disabili e altro ancora, certo, mi confortano e mi suscitano grande e profonda ammirazione per tutte le capacità che queste persone riescono a mettere in gioco. Al tempo stesso, però, vorrei far notare, nella grande rappresentazione di questa nostra realtà sociale, che la persona con disabilità non deve mostrare le proprie incapacità, per avvalorare ed esaltare le capacità eventualmente raggiunte. Senza voler sottacere o nascondere alcunché, mi sembra infatti che sia dignitoso mostrare la persona con disabilità in tutto il suo essere umano, prescindendo dall’estremizzazione del suo carattere e dei suoi limiti.
Che l’handicap, ossia “l’ineguaglianza delle prestazioni” derivante da menomazioni o patologie a carico di una persona, sia in realtà commisurato non più e non solo alla valenza di questa menomazione o disturbo, bensì al fatto che la persona viva, operi e lavori in un ambiente sfavorevole o favorevole, è cosa ormai assodata, per la quale si può concludere che la disabilità è una “determinata condizione di salute in un ambiente sfavorevole”. Oltre a ciò è acclarato anche che la povertà e l’handicap creano una sorta di circolo vizioso, tanto che se la povertà è causa dell’handicap, vale anche il suo opposto.
La persona con disabilità, come essere umano e perché essere umano, ha diritti primari che non è lo Stato a dover attribuire; diritti naturali che proprio perché tali, sottendono prerogative umane insopprimibili che lo Stato deve solo riconoscere. Sono quei diritti che nascono con l’uomo e con lui muoiono, costituendo la garanzia vitale dei beni insostituibili e inalienabili della vita, dell’integrità fisica e psichica, dell’uguaglianza e della libertà, della vita stessa.
Perciò la frequente rappresentazione di amici disabili che esulano da una “normale disabilità”, con l’intenzione di dimostrare categoricamente che anche la persona disabile può raggiungere traguardi impensabili e insperati, mi pone delle perplessità.
In realtà tutti hanno in sé delle potenzialità che possono evolversi o essere sviluppate a prescindere dalle proprie condizioni psicofisiche. Anche il mondo della “normalità” è pieno di individui con una spiccata ed emergente sensibilità nell’arte, nella cultura, nello sport e quant’altro. Questo però non significa che la “normalità” sia costituita da tali eccezionalità, altrimenti vorrebbe dire banalizzare la normalità stessa.
Ora, credo che nel mondo della disabilità debba essere applicato lo stesso concetto in maniera più profonda e responsabile. Siamo individui che alle quotidiane difficoltà della vita devono accollarsi quelle di una mente o di un corpo malato, di barriere create dalla società – non sempre volutamente, ma volutamente non risolte -, di famiglie costrette ad enormi sacrifici.
È proprio questa, paradossalmente, la “normalità della disabilità”. Mi piacerebbe proprio non vedere più la “diversità nella diversità”. Vorrei vedere, sentire, vivere il “disabile normale”, non discriminato per pulsione umana e non avvicinato per compassionevole soddisfacimento della propria coscienza. E tutto l’amore, l’“infatuazione” e l’attaccamento per la nostra vita deve purtroppo quotidianamente fare i conti con gli sguardi compassionevoli e curiosi degli altri, con il non poter mangiare, vestirsi, lavarsi, con il disagio di vivere tra enormi difficoltà, con l’esigenza continua di dover gridare per veder riconosciuti e tutelati i propri diritti, con il mostrare sempre e dovunque la prova della nostra diversità.
Per questo credo sarebbe opportuno, e umanamente profondo, mostrarci nella società per come siamo, “viventi tra i vivi”. Auspico con tutto me stesso che le persone con disabilità – evitando di contribuire alla “mitizzazione dello straordinario” – partecipino, intervengano e diventino “ordinari protagonisti”, nella normale, quotidiana realtà di vita.