La crisi mondiale e le politiche di inclusione: i servizi di sostegno

di Giampiero Griffo*
Dopo la povertà e il welfare, sono questa volta i servizi di sostegno al centro del nuovo approfondimento curato in esclusiva per il nostro sito da Giampiero Griffo, per diffondere una nuova cultura sulla disabilità, basata sui diritti umani e sulla Convenzione ONU, partendo dallo scenario determinato dalla crisi economica mondiale e dal rischio, per le persone con disabilità, di tornare ad essere “cittadini invisibili”
25 agosto 2006: approvazione alle Nazioni Unite della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità
25 agosto 2006: viene approvata alle Nazioni Unite la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità

La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (d’ora in poi, spesso, CRPD) introduce una nuova visione della condizione di disabilità, dove quest’ultima è una relazione sociale e non una condizione soggettiva. La limitazione funzionale è una condizione soggettiva, la disabilità, invece, è l’interazione tra limitazione funzionale e ambiente fisico e sociale (Preambolo e della Convenzione: « […] la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri»).
Vediamo di descrivere questo nuovo modello attraverso il seguente schema, ove in grassetto vengono individuate le differenze tra la Convenzione ONU e il modello di disabilità dell’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001.

Convenzione Internazionale
sui Diritti delle Persone con Disabilità
2006 – ONU

– Diversità umane
(varie cause)

– Strutture e funzioni del corpo (caratteristiche)
– Attività (limitazioni e discriminazioni)
– Partecipazione – Inclusione (restrizioni)

– Fattori ambientali e sociali – Impoverimento/Empowerment
Fattori individuali – Impoverimento/Empowerment – Abilitazione

Ogni persona, dunque, ha un suo modo di funzionamento, derivante dall’insieme delle sue caratteristiche. Se una persona è lenta, costruirà una modalità di fare le cose in cui terrà conto di quella sua caratteristica. E se una persona è obesa, tenderà a limitare gli sforzi fisici.
Lo stesso vale per le limitazioni funzionali: io che mi muovo in sedia a rotelle ho costruito la mia casa eliminando barriere e ostacoli, perché il mio modo di funzionamento comporta il muoversi in sedia a rotelle. La mia limitazione funzionale (paralisi agli arti inferiori) diventa disabilità solo dove un ambiente ostile e/o un comportamento sociale discriminatorio mi impedisce di muovermi e partecipare come gli altri Cittadini.
Quindi non è la mia condizione di salute (come invece sottolinea l’ICF) a causare una disabilità, perché non si può ridurre una persona a una caratteristica. Le persone, infatti, hanno pregi e difetti, capacità e limitazioni che messi insieme creano il loro modo di funzionamento. Non a caso la CRPD è basata su princìpi generali (articolo 3), tra i quali spicca «il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana». Qualunque sia la causa della limitazione funzionale e qualunque ne sia la natura, questa è ascrivibile alla diversità umana. Una persona, ad esempio, con una lesione midollare che le ha causato una paraplegia, non può essere descritta solo sulla base delle sue limitazioni funzionali, e queste ultime, pur producendo condizioni di dipendenza da terzi (ad esempio per vestirsi, muoversi, lavarsi ecc.), non producono automaticamente una condizione di disabilità. Lo stile di vita di quella persona, i percorsi di crescita della consapevolezza e dell’abilitazione progressiva a gestirsi la vita e a trovare soluzioni per lo svolgimento delle differenti attività, fanno sì che la limitazione funzionale possa essere superata da ausili tecnologici e umani, da modifiche dell’ambiente, dalla capacità di autodeterminarsi e vivere una vita in forma autonoma e indipendente.

In effetti, l’elemento di compromissione delle capacità funzionali del corpo interagisce con gli elementi soggettivi e sociali, producendo molte volte una resilienza (1), che viene spesso confusa col coraggio. In realtà è una capacità di accettazione della propria condizione e un adattamento alle condizioni di vita che includono quella limitazione funzionale nelle attività quotidiane. Sarebbe più corretto, perciò, definire la compromissione funzionale come una delle caratteristiche della persona e non la caratteristica da cui partire, altrimenti rischiamo di ridurre ad essa quella stessa persona.
Tutti sanno che Beethoven ha passato una parte della propria vita in condizioni di sordità, pur continuando a comporre: nessuno, però, si sognerebbe mai di analizzare la condizione di Beethoven partendo dalla sua sordità. Quest’ultima, infatti, è solo una delle caratteristiche, e tutto sommato così trascurabile (infatti egli ha continuato a comporre), da non inficiare l’immagine di grande compositore.
Secondo il modello della Convenzione, quindi, piuttosto che parlare di malattie che colpiscono le strutture e le funzioni del corpo, sarebbe più corretto utilizzare il termine caratteristiche delle persone, basate sulla diversità umana che oltre ad essere etnica, culturale, sociale, di storie di vita e di DNA, è anche fisica e di capacità funzionali.

Ludwig van Beethoven
«Nessuno si sogna di analizzare la condizione di Beethoven – scrive Griffo – partendo dalla sua sordità»

Nell’approccio della Convenzione si tratta di garantire il rispetto dei diritti umani anche alle persone con disabilità e quindi la descrizione delle limitazioni che possono impedire lo svolgimento di un’attività non include solo le barriere, ma anche le discriminazioni. Ad esempio, in un contesto educativo, l’assenza di barriere architettoniche non è sufficiente per identificare se l’alunno con disabilità frequenti una classe ordinaria o sia segregato in una “classe speciale”.
Altro elemento essenziale per descrivere la condizione di disabilità è quello relativo all’inclusione, parallelo a quello della partecipazione. Quest’ultima, infatti, può attivarsi sia in contesti segregativi, sia in ambiti ordinari, ma con valenze assai diverse.
È il caso quindi di soffermarsi qui di seguito sui concetti di inserimento, integrazione e inclusione, per chiarirne le implicazioni semantiche, importanti per il nostro discorso.

Inserimento, integrazione e inclusione
L’inserimento riconosce il diritto delle persone con disabilità ad avere un posto nella società, ma si limita a inserirle in una zona spesso separata dalla società (un istituto o una classe speciale, ad esempio), oppure in una situazione passiva, di dipendenza e di cura. In questo caso, la decisione su dove debbano vivere e come debbano essere trattate le persone con disabilità non è presa da loro – o dalle loro famiglie, nel caso non possano rappresentarsi da sole – dipendendo bensì da decisioni di altri attori (medici, operatori di istituzioni pubbliche ecc.). Spesso, quindi, l’inserimento è basato su un approccio caritativo e assistenziale.
L’integrazione, invece, è il processo che garantisce alle persone con disabilità il rispetto dei diritti all’interno dei luoghi ordinari, vissuti da tutte le persone, senza però modificare le regole e i princìpi di funzionamento della società e delle Istituzioni che li accolgono.
Dietro a tale impostazione vi è ancora una lettura basata sul modello medico della disabilità. Prevale infatti ancora l’idea che le persone con disabilità siano “speciali” e vadano sostenute attraverso interventi prevalentemente tecnici (anche se “speciali” lo sono diventate proprio perché escluse dalla società). L’integrazione non è quindi un riconoscimento pieno di dignità e di legittimità ed è la persona a doversi adattare alle regole sociali già definite, rimanendo un “ospite” della società che lo accoglie con condiscendenza. Tant’è vero che questo principio si basa sulle risorse economiche disponibili e quindi è soggetto a parametri esterni al diritto. Se non ci sono i soldi, pazienza per i diritti!
L’inclusione, infine, è il concetto che prevale nei documenti internazionali più recenti. In questo caso, la persona con disabilità viene considerata come un Cittadino a pieno titolo e quindi titolare di tutti i diritti, come gli altri. Egli è parte della società e deve godere di tutti i beni, i servizi, le politiche e i diritti ad essa connessi. Viene per altro riconosciuto che la società si è organizzata in maniera tale da creare ostacoli, barriere e discriminazioni, che vanno rimosse e trasformate.
Secondo questo modello, dunque, la persone con disabilità rientra nella comunità con pieni poteri, ha il diritto di partecipare alle scelte su come la società si organizza, sulle sue regole e sui princìpi di funzionamento, i quali stessi devono essere riscritti, tenendo conto di tutti i membri della società. Insomma, qui le persone con disabilità non sono più ospiti nella società, ma parte integrante della stessa e dietro a tale concetto, vi è il modello sociale della disabilità basato sul rispetto dei diritti umani, che sottolinea le responsabilità della società nel creare condizioni di disabilità. La disabilità, infatti – come si sottolinea nel già citato Preambolo e della Convenzione, «è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri». Quindi è un rapporto sociale tra le caratteristiche delle persone e la maniera in cui la società ne tiene conto.
L’inclusione, in definitiva, riconosce la diversità umana e la inserisce all’interno delle regole di funzionamento della società, nella produzione di beni e nell’organizzazione di servizi.
Il diritto umano ad essere inclusi non dipende dalle risorse disponibili, bensì dalla consapevolezza che tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti. Pertanto, la valutazione della qualità dell’inclusione risulta essenziale per identificare non solo le barriere e gli ostacoli, ma anche le discriminazioni e la mancanza di pari opportunità che la società impone alle persone con disabilità (2).

Oscar Pistorius
Se descrivessimo il celebre atleta sudafricano Oscar Pistorius semplicemente come “una persona amputata ad entrambi gli arti inferiori”, non saremmo in grado di ricostruirne il percorso di abilitazione che lo ha portato addirittura a partecipare alle Olimpiadi dei normodotati

L’inclusione è un processo di sistema, che coinvolge tutti i campi di attività della società, in un nesso inscindibile. La CRPD lo esplicita nel Preambolo c, quando sottolinea «l’universalità, l’indivisibilità, l’interdipendenza e interrelazione di tutti i diritti umani e libertà fondamentali e la necessità di garantirne il pieno godimento da parte delle persone con disabilità senza discriminazioni».

Sistemi di accertamento ed empowerment
Partendo da queste considerazioni risulta evidente che gli attuali sistemi di accertamento delle condizioni delle persone con disabilità non si occupano di disabilità, bensì si fermano all’accertamento delle limitazione funzionali (accertamenti di invalidità) o a un accertamento generico di handicap (Commissioni come da Legge 104/92), senza parametri oggettivi.
Gli accertamenti sui bisogni educativi o lavorativi – più vicini a definire i sostegni necessari a studiare e lavorare – non a caso separano l’accertamento medico da quello sociale, che viene sviluppato su parametri non medici (e spesso espressi in modi estremamente sintetici, se non inappropriati). Molti servizi derivano da questo approccio valutativo, producendo alla fine soluzioni di “parcheggio” e/o di semplice accoglienza.
Elemento quindi di azione delle associazioni di persone con disabilità sull’area dell’accertamento è prima di tutto quello di applicare l’articolo 1, comma 2, della CPRD, che è già Legge dello Stato [Legge 18/09, N.d.R.]: «Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri». Infatti, andrebbero accertate sia le condizioni di salute (menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali), sia quelle ambientali e sociali («barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri») e le loro interazioni.
L’accertamento, quindi, dovrebbe spostarsi da quello medico sulla limitazione funzionale a quello sulla disabilità, analizzando l’interazione tra condizione individuale e relazione con l’ambiente e la società.
Il cambiamento di prospettiva deriva naturalmente da un cambiamento di obiettivi: non si accerta la condizione di salute, perché l’obiettivo non è più curare, proteggere, assistere, ma bensì la condizione di disabilità, perché l’obiettivo diventa l’inclusione, la piena cittadinanza, la partecipazione. Ecco perciò che i progetti individuali – come da articolo 14 della Legge 328/00 (3) – assumono un altro significato e importanza. Infatti, nel processo di accertamento e di elaborazione della condizione di disabilità intervengono fattori culturali (stereotipi e pregiudizi), elementi fisici (barriere), sociali (discriminazioni) e individuali. L’insieme di questi elementi produce forme di impoverimento delle persone con disabilità, sia nelle capacità individuali che nelle competenze sociali.
Qui particolarmente importanti sono i fattori psicologici, collegati all’accettazione dello stigma sociale negativo al quale le persone con disabilità sono sottoposte e che spesso esse stesse introiettano come fattore negativo “oggettivo”. In tal senso, la sottolineatura che la disabilità è un «concetto in evoluzione» (Preambolo e della Convenzione ONU) non vale solo per la visione che la società ha della condizione delle persone con disabilità, ma assume un ruolo importante nella percezione soggettiva elaborata dalla persona stessa che vive condizioni di disabilità. I processi di impoverimento individuale, infatti, possono essere in atto e non basta quindi eliminare le barriere fisiche alla partecipazione. Si tratta invece di produrre un processo inverso di crescita di consapevolezza della propria condizione e di progressivo empowerment [qui genericamente “rafforzamento”, N.d.R.] delle capacità individuali e sociali del soggetto (4).

Per un welfare dell’inclusione sociale
Se parliamo di modo di funzionamento delle persone, se parliamo di disabilità e se l’obiettivo è quello di ridiventare Cittadini, con la possibilità di riacquistare tutti i ruoli che la società spesso ci ha negato (essere studenti, viaggiatori, lavoratori, sportivi, turisti ecc.), è chiaro che il modello di servizi che oggi vengono offerti alle persone con disabilità in Italia è inadeguato. Questi vanno riformulati proprio perché è necessario superare il welfare basato sulla protezione sociale, per ri-orientare i servizi di sostegno verso un welfare dell’inclusione sociale.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale, in cui l’obiettivo dei trattamenti a cui sono sottoposte le persone con disabilità – e quindi dei servizi – è di garantire il massimo livello di salute possibile, ma in un contesto in cui la salute non è l’assenza di malattie o di limitazioni funzionali, ma il benessere e il “ben diventare” della persona. Quindi, piuttosto che occuparsi di ricostruire una condizione di presunta normalità psicofisica – come si ostina a fare la riabilitazione medica, arrivando o a interventi senza risultato o a veri e propri accanimenti terapeutici – va garantito alle persone, la cui limitazione funzionale è stabilizzata, il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali e delle capacità a cui le persone danno valore, anche nei casi di una condizione di diversità funzionale cronica. In altre parole, le persone con differenti disabilità possono avere bisogno di diversi tipi e quantità di sostegni per il loro benessere.

Manifesto inglese sulla vita indipendente delle persone con disabilità
Un manifesto inglese sulla vita indipendente delle persone con disabilità

Questo approccio corrisponde alla modalità basata sulle Capability di Amartya Sen, il Premio Nobel per l’Economia indiano, il quale ha messo in evidenza che lo sviluppo di una società non può basarsi solo sulla crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo), bensì risulta veramente efficace se permette lo sviluppo delle risorse umane di un determinato Paese (5). La strategia di sviluppo basata sulla capability punta quindi soprattutto alle capacità delle persone, in termini di competenze e saperi.
Così al concetto tradizionale di riabilitazione, viene aggiunto quello di abilitazione (o, diremo a questo punto, di capabilitazione). Si riabilita se si recupera una funzionalità del corpo persa, si abilita quando si sviluppano nuove abilità, partendo dalle condizioni psicofisiche delle persone. Infatti, la diversità funzionale è una delle caratteristiche della persona che, insieme a tutte le altre, concorre a definire l’insieme delle sue capacità, opportunità e potenzialità. Se descrivessimo il noto sportivo sudafricano Oscar Pistorius come “una persona amputata ad entrambi gli arti inferiori”, non saremmo in grado di ricostruire il percorso di abilitazione che egli ha costruito durante la sua vita, per diventare un atleta che corre al livello dei principali sprinter mondiali i 200 e i 400 metri.
La Convenzione, inoltre, impegna gli Stati (articolo 26) ad organizzare, rafforzare ed estendere «servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nelle aree della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali». I servizi e i programmi devono avere «inizio nelle fasi più precoci possibili» (6) e devono basarsi «su una valutazione multidisciplinare delle necessità e dei punti di forza dell’individuo». Devono infine sostenere «la partecipazione e l’inclusione nella comunità e in tutti gli aspetti della società», essere «volontari […] e disponibili per le persone con disabilità in luoghi i più vicini possibile alle loro comunità di appartenenza».
Quindi l’obiettivo non è più quello di guarire, bensì di sostenere la vita indipendente e l’inclusione nella comunità (articolo 19), non è più quello di offrire ausili, ma di garantire la mobilità personale (articolo 20), la partecipazione e la capability. Quest’ultimo articolo della Convenzione – il ventesimo, appunto – riformula pertanto le modalità di assegnazione degli ausili: essendo infatti la mobilità un diritto umano, la carrozzina elettrica, ad esempio, dovrebbe essere assegnata senza limitazioni temporali o di status sociale.

Due forme di empowerment
Un altro binomio di parole essenziali nei servizi di sostegno è dato dalle parole impoverimento/empowerment. Le persone con disabilità, infatti, sono discriminate e senza uguaglianza di opportunità e per questo risulta loro impedita la piena partecipazione sociale.
Ogni volta che una persona con disabilità incontra un ostacolo, una barriera, una discriminazione, egli viene impoverito di competenze e possibilità. Infatti, i fattori sociali e ambientali – comprendenti, come già detto, barriere, ostacoli e discriminazioni -, possono produrre l’impoverimento delle loro capacità e performance, limitando ben oltre le loro minorazioni le abilità individuali e sociali, come abbiamo visto in un precedente articolo pubblicato su queste pagine.
In sostanza, il concetto di povertà si allarga a quello di “trattamento disuguale che impoverisce”. Risulta così ben chiaro che la disabilità è causa ed effetto di povertà, causa perché se si possiede una caratteristica socialmente dimenticata si è esclusi dalla società, effetto perché se si è poveri spesso ne conseguono forme di disabilità (di salute, di cultura, di genere etc.). Appare dunque evidente che le persone con disabilità necessitano di interventi che trasformino la loro percezione di se stesse e del mondo che le circonda e rafforzino i loro strumenti di autodifesa.
Per questo sempre più il movimento mondiale delle persone con disabilità centra una delle proprie azioni essenziali di tutela dei diritti umani sull’empowerment. Quest’ultima è una parola inglese che ha due significati, uno legato alla persona, di rafforzamento delle capacità, il secondo sociale, di acquisizione di potere. E le persone con disabilità hanno bisogno sia di un rafforzamento delle loro capacità individuali, sia dell’acquisizione di maggior potere di decidere su come la società li include, attraverso le organizzazioni che rappresentano loro e i loro familiari.
È innegabile che le persone con disabilità subiscano violazioni continue dei loro diritti umani, che spesso producono in loro la percezione di essere inadeguati, di essere loro stessi “incapaci di vivere in società” a causa della loro condizione. Trasformare questa percezione è il primo obiettivo dell’empowerment : infatti, solo essendo coscienti delle discriminazioni e delle oppressioni che la società ci costringe a vivere si può iniziare un percorso di emancipazione.
L’empowerment individuale delle persone con disabilità riguarda vari aspetti: emotivi (riformulazione delle emozioni sul costruire e trasformare, piuttosto che sul limitare e distruggere); percettivi (ridefinizione delle esperienze di vita sulla base del modello sociale della disabilità); intellettivi (comprensione degli strumenti culturali di cui dotarsi, apprendendone i linguaggi); comportamentali (trasformazione delle relazioni umane e sociali sulla base della nuova consapevolezza); abilitativi (apprendere a fare delle cose anche in modo diverso); informativi (conoscere e saper usare le leggi e le risorse del proprio territorio).
Questa azione di accrescimento della consapevolezza della propria condizione può essere sviluppata quasi esclusivamente attraverso le stesse persone con disabilità, un’intuizione – quella cioè di persone più consapevoli che sostengono il percorso di consapevolezza di altre persone con disabilità – che  è diventata un preciso strumento di azione (il peer counseling) e un vero e proprio lavoro politico e tecnico. Centrali nelle attività di empowerment sono infatti i consulenti alla pari (peer counsellor), persone con disabilità che ne sostengono altre nei percorsi di autonomia e di autodeterminazione. I riferimenti teorici si ritrovano già nella psicologia umanistica e in particolare nella cosiddetta “terapia fondata sul cliente” di Rogers e Carhkuff (7), Autori che identificavano l’auto-aiuto tra pari come un efficacissimo strumento di lavoro, intendendo per “pari” qualcuno che è nella stessa situazione, che ha la medesima età, cultura, background o che ha avuto una stessa esperienza di vita. Nel caso delle persone con disabilità, un “pari” è qualcuno che ha una disabilità.

Consulenza alla pari tra persone con disabilità
Un incontro di consulenza alla pari tra persone con disabilità

Le applicazioni pratiche di questa visione nascono negli Stati Uniti dove – dietro la spinta dei movimenti per la vita indipendente fioriti a Berkeley negli Anni Sessanta – si sviluppano i Centri per la Vita Indipendente (8) e si strutturano progressivamente le esperienze di auto-aiuto e di sostegno fra pari che portano alla nascita del consulente alla pari.
L’insieme di queste premesse trasforma l’idea stessa di presa in carico riabilitativa e sociale delle persone con disabilità, cancellando qualsiasi forma di segregazione e istituzionalizzazione, produttrice di gravi violazioni dei diritti umani: la Convenzione, infatti, riconosce «l’eguale diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella comunità, in pari condizioni di scelta rispetto agli altri membri» ed è proprio l’obiettivo della vita indipendente (diritto umano riconosciuto dall’articolo 19 della Convenzione stessa) che dovrebbe orientare i servizi e i trattamenti.

I progetti individuali italiani
Anche qui la Convenzione ci aiuta a riformulare il modo di ragionare sulle persone con disabilità. Se esse infatti vengono escluse e discriminate, gli interventi in loro favore dovrebbero garantire il sostegno adeguato per essere inclusi e partecipare. Nella Convenzione non si trovano descrizioni del livello di limitazione funzionale (gravi e gravissimi, come si dice in Italia), bensì si ribalta il modo di vedere la loro situazione: per poter essere Cittadini come gli altri, cioè, lo Stato deve mettere loro a disposizione appropriati sostegni e in certi casi (come recita il Preambolo j), «sostegni maggiori» (in inglese more intensive support). È la società, infatti, che ha creato barriere, ostacoli e discriminazioni e quindi è la società stessa che deve mettere a disposizione i sostegni necessari e in alcuni casi i sostegni maggiori.
Ecco che il significato dei progetti individuali risulta trasformato. Intanto sono progetti e quindi devono implicare le persone beneficiarie come attori. Il progetto è “come voglio diventare”, “come sogno di essere”, quindi dev’essere basato su processi dinamici, con periodiche verifiche dei risultati. Infine, sono progetti che partono spesso da una situazione di esclusione e che si pongono l’obiettivo di conseguire un’inclusione possibile.
Spesso, purtroppo, in molte Regioni italiane la definizione dei progetti individuali è assai povera e priva degli elementi di coordinamento tra i vari enti competenti, riducendosi frequentemente a una definizione delle risorse da mettere in campo tra i vari enti (l’intervento socio-sanitario), perdendo di vista la centralità della persona. Il progetto individuale secondo lo spirito della CRPD dovrebbe invece superare la logica della presa in carico (i servizi prendono in carico qualcuno che non è in condizione di occuparsi di sé), per giungere a definire progetti individuali che abbiano lo scopo di sostenere l’inclusione di persone escluse e discriminate, basandosi sull’empowerment, sul sostegno alla vita in comunità e sulla riabilitazione e abilitazione in tutti i campi, attraverso la partecipazione diretta dei soggetti interessati. Quanti servizi indirizzati alle persone con disabilità sono basati su progetti individuali di questo tipo?
Il tema poi del coordinamento e della continuità dei servizi indirizzati alle persone con disabilità assume in molte Regioni connotazioni realmente drammatiche. Innanzitutto, solo alcune di esse hanno definito un coerente coordinamento dei servizi, rimanendo le varie competenze slegate tra di loro. Inoltre, spesso gli interventi non sono capaci di trasferire conoscenze e competenze maturate in un altro ambito, cosicché, per esemplificare, gli interventi riabilitativi restano relegati in ambito sanitario, quelli educativi in ambito scolastico, quelli lavorativi e quelli sociali non interagiscono con gli altri.
Ma perché questo tipo di coordinamento è assente? Proprio perché quasi mai i progetti sono legati a verifiche puntuali, a sistemi di monitoraggio dei risultati, talché un progetto riabilitativo in molte Regioni non ha mai una verifica di efficacia, ciò che porta spesso a sprecare ingenti risorse. Un progetto individuale si limita in genere ad offrire servizi – sempre più ridotti dai tagli alle spese sociali – ma non è quasi mai finalizzato al reale empowerment delle persone beneficiarie ed è quasi sempre centrato sul profilo degli operatori, per cui l’assistenza domiciliare “comincia alle 8 e finisce alle 14”. Infine, sono poco diffusi i progetti che si basano sulla modalità dei budget di cura, in cui si responsabilizzano i beneficiari ad utilizzare risorse su obiettivi concordati.
Per non parlare poi della Riabilitazione su Base Comunitaria, strategia delle Nazioni Unite, che sottolinea come il processo di inclusione delle persone con disabilità debba coinvolgere tutta la comunità. Importante, infatti, per l’inclusione, è il cambiamento di percezione in una comunità sul ruolo e sul valore delle persone con disabilità, mentre sin troppo spesso la società – intesa sia come insieme dei cittadini, sia come mass media che informano e analizzano cosa avviene in una comunità – ha ancora una visione negativa delle persone con disabilità, che limita fortemente la possibilità di trasformare comportamenti, servizi e politiche.
Intervenire con campagne appropriate, con alleanze con gli operatori di giornali, televisioni e radio, con “eventi-tipo”, che mettano in evidenza la condizione di discriminazione e di mancanza di pari opportunità  delle persone con disabilità, è un elemento necessario per promuovere l’inclusione.

In conclusione, tutte queste considerazioni fanno emergere quale grande rivoluzione rappresenti la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e quanto lavoro le associazioni debbano svolgere per trasformare il sistema dei servizi italiani indirizzati alle persone con disabilità.

Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), componente dell’Ad Hoc Committee (Comitato Ad Hoc) che ha elaborato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.

 

Note:
(1) In psicologia la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà. È la capacità di ricostruirsi, restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza perdere la propria umanità.

(2) Borgnolo G., De Camillis R., Francescutti C. e altri, ICF e Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Nuove prospettive per l’inclusione, Spini di gardolo (Trento), Erickson, 2009.

(3)
«1. Per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro, i comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale, secondo quanto stabilito al comma 2. 2. Nell’ambito delle risorse disponibili in base ai piani di cui agli articoli 18 e 19, il progetto individuale comprende, oltre alla valutazione diagnostico-funzionale, le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. Nel progetto individuale sono definiti le potenzialità e gli eventuali sostegni per il nucleo familiare».


(4)
Griffo G.,
L’empowerment base del lavoro delle organizzazioni di persone con disabilità, in Inserto Empowerment, pp. 1-2, in «Notiziario AP», n. 3 (giugno/luglio), anno XXII, Roma, 2006.

(5)
Sen A.,
Etica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 2002; Id., Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Milano, Mondadori, 2000; Id., Scelta, benessere, equità, Bologna, il Mulino, 2006; Id., la diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna, il Mulino, 2010; Id., L’idea di giustizia, Milano, Mondadori, 2010; Stiglitz J.E., Sen A., Fitoussi J.-P., La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Milano, Etas Libri, 2010. Si vedano anche: Nussbaum M.C., Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Bologna, il Mulino, 2002 e Id., Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, a cura di C. Faralli, Bologna, il Mulino, 2007.

(6)
Sviluppando così percorsi di autonomia per il bambino o il giovane, per una vita più indipendente, intessendo maggiori relazioni sociali e tentando nuove strade, per un’autonomia/autodeterminazione nella società.

(7)
La prima applicazione di questa teoria è stata sviluppata con gli alcolisti.

(8)
Maggiori informazioni sui Centri per la Vita indipendente (Independent Living Center) si possono trovare nel sito internet dell’Istituto per la Vita Indipendente di Stoccolma (www.independentliving.org).

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