Quella Sentenza della Corte di Cassazione – per molti versi clamorosa – che ha riconosciuto a una famiglia un indennizzo di un milione di euro per la nascita di una bimba con sindrome di Down – malgrado la madre avesse espresso chiaramente la richiesta che venisse effettuata tutta la diagnostica per conoscere il possibile verificarsi di tale eventualità e il medico non avesse poi prescritto gli esami specifici – ha aperto un interessantissimo dibattito nel mondo delle persone con disabilità, con gli interventi su queste pagine, tra gli altri, di Franco Bomprezzi e di Salvatore Nocera.
Ebbene, il fatto clamoroso è rappresentato dal riconoscimento dell’indennizzo del danno anche a favore della bambina stessa, oltre che naturalmente della famiglia. Bomprezzi sostiene in sintesi che questo assunto – che la disabilità, cioè, sia di per sé “un danno” e quindi sia risarcibile nei confronti dell’interessato – nasconda preoccupanti significati di sapore eugenetico, mentre Nocera analizza la Sentenza “secondo il comune sentire”, portandolo ad ammettere che per la maggioranza della popolazione, si è ancora lontani dal non considerarla tale.
La stima e l’ammirazione che proviamo per entrambi gli interlocutori ci induce ad entrare cautamente nel dibattito e ad esprimere il nostro pensiero, che tenta di cogliere il comune sentire di due tesi che a parere di chi scrive sono solo apparentemente contrapposte.
In via di principio, riteniamo che il nascere “con disabilità” non dovrebbe costituire una discriminante al diritto di nascere. Riconosciamo tuttavia che la scelta se far nascere o non far nascere una persona con grave disabilità sia di esclusiva pertinenza della madre, nel rispetto della legge e della libertà personale. Ci permettiamo solo di rammentare che molte delle “non nascite” sono da ascriversi a colpe della società, che non ha saputo o voluto eliminare, superare o ridurre fortemente l’handicap, che accompagna un’esistenza con disabilità.
Dobbiamo altresì riconoscere che la quantificazione economica del danno personale di nascere con una grave disabilità abbia fondate ragioni. In termini economici, infatti, tale evento comporterà non solo – e “fatalmente” – una forte riduzione della capacità di produrre reddito da parte della famiglia (ad esempio con l’abbandono del lavoro da parte della madre), ma impedirà quasi altrettanto “fatalmente” alla stessa persona con disabilità di produrne, raggiunta l’età lavorativa.
Possiamo dunque sostenere che vi sia un danno economico risarcibile anche verso la persona con disabilità stessa, dovuto all’handicap prodotto dalla disabilità e non alla disabilità di per se stessa, e che tale danno permanga anche oltre l’esistenza della famiglia, intesa come genitori della ragazza. Appare tuttavia dubbio che tale danno possa avere un identico risarcimento, se provocato oppure se non rilevato per tempo.
Realisticamente, infine, dobbiamo riconoscere che esistenze fortemente volitive e compiutamente realizzate, come quelle di Bomprezzi e di Nocera, rappresentino ancora l’eccezione alla quale mirare piuttosto che la consuetudine nel mondo delle persone con disabilità e che tuttavia tale mondo sia impegnato in una stupefacente evoluzione che lo porta a reclamare e a compartecipare alla conquista dei propri diritti di “persone normali con esigenze speciali”.