La sindrome di Down vale un milione! Questa frase si presta ad essere pronunciata con tanti toni di voce diversi: con l’enfasi dell’avvocato della famiglia, che vede nella sentenza della Suprema Corte una sorta di “rivoluzione copernicana”, dato che per la prima volta si stabilisce che nascere con un handicap è un danno gravissimo per la persona che nasce e non per i genitori; con lo sdegno di Franco Bomprezzi, che contesta la monetizzazione della disabilità e l’affermazione del suo disvalore; con l’obiettività laica di Salvatore Nocera, un cattolico sempre attento all’evoluzione della coscienza sociale; con la prudenza di un’istituzione scientifica, ma di stretta osservanza religiosa, come il Centro di Bioetica della Cattolica di Milano.
Sono stati questi i vari angoli visuali sotto i quali nell’ultima settimana – sulle colonne di Superando.it – è stata posta sotto osservazione quella Sentenza della Corte di Cassazione con cui un medico, che non aveva prescritto tutte le analisi necessarie a scoprire eventuali problemi di malformazioni genetiche, è stato condannato a risarcire con un milione di euro una ragazza nata con la sindrome di Down.
Tutte le opinioni citate contengono degli aspetti condivisibili, in particolare quella espressa da Bomprezzi, che rileva come l’assegnazione del risarcimento sia avvenuta in capo alla ragazza e non ai familiari. Ma chi scrive – ancor prima di esaminare il problema del destinatario del risarcimento – ritiene di dover aggiungere un’altra considerazione, questa volta di natura filosofica, mentre le precedenti sono state di natura sociale, sociologica o etica.
È pacifico che questa Sentenza non farebbe sorgere alcun interrogativo se lo stato della scienza medica consentisse di intervenire geneticamente sul feto per eliminare il problema, dato che in questo caso il mancato esame diagnostico sarebbe in chiaro rapporto di causa ed effetto con la malformazione. Invece, purtroppo, l’unico modo per evitarla, oggigiorno, è l’aborto, che in realtà non evita la malformazione, ma la nascita della persona con disabilità.
Fermo restando, sotto il profilo puramente pratico, che quella bella somma garantirà il futuro benessere materiale della ragazza anche quando i genitori non potranno più assisterla, il dilemma è “cornuto”, come suol dirsi, ossia, delle due l’una: se i genitori, avvisati della malformazione, avessero deciso di interrompere la gravidanza, la ragazza ora non esisterebbe e nessuno potrebbe chiedere risarcimenti; ma allora è il fatto di esistere, pur con sindrome di Down, a produrre l’effetto risarcitorio? A parte la giusta considerazione che ogni vita è degna di essere vissuta, vogliamo provare a chiedere alla ragazza se preferirebbe non essere mai nata?
Ma forse l’indagine va spostata sul piano giuridico e allora – pur nella difficoltà per un povero cultore del diritto come chi scrive, di criticare la Suprema Corte di Cassazione – si potrebbe mettere d’accordo la sociologia con la filosofia e forse anche con l’etica cattolica.
Lascio a una firma più capace l’esegesi del testo della Sentenza, mettendomi semplicemente (si fa per dire) nei panni di un giudice cui sia sottoposta la disputa. Sembra pacifico che il medico – o per negligenza o per imperizia – non abbia suggerito l’esame che avrebbe rivelato il difetto genetico, comportamento sicuramente ascrivibile a sua colpa. È quindi pacifico che l’eventuale danno procurato debba da lui essere risarcito. Ma qual è il soggetto creditore di questo risarcimento? A mio modesto parere, la teorica possibilità che i genitori – se tempestivamente informati – decidessero per l’interruzione della gravidanza, interrompe il nesso di causalità tra il comportamento omissivo del medico e l’evento della situazione di disabilità della ragazza. Se ciò è vero, il risarcimento avrebbe dovuto essere stabilito in capo alla madre, che non è stata posta nelle condizioni di poter esercitare la scelta a lei consentita dalla legge. Conseguentemente, non si sarebbe dovuto discutere di “danno subìto dalla ragazza Down” – con le obiezioni sociologiche, filosofiche ed etiche rilevate da chi si è in precedenza occupato del caso su queste colonne e dal sottoscritto – bensì del danno subìto dai genitori. Questo danno, infatti, è identificabile in re ipsa [espressione giuridica per la quale un fatto è un danno di per sé, senza la necessità di provarlo, N.d.R.], a prescindere cioè da ogni valutazione morale, per il fatto di trovarsi in una situazione che avrebbero potuto evitare, esercitando il diritto concesso loro dalla legge. E sul contenuto e sulla natura di tale diritto ci sarebbe molto da scrivere, solo pensando alle preoccupazioni per il presente e soprattutto per il futuro della figlia nel temuto “dopo di noi”.
Ecco pertanto che il milione verrebbe quanto meno ad attenuare queste preoccupazioni dei genitori, ai quali avrebbe dovuto essere attribuito.