Il caso di Verona del ragazzo con autismo scambiato per uno spacciatore e sottoposto a sedazione e radiografia addominale – vicenda della quale si è già discusso su queste pagine – ha messo in luce il grave problema di quei ragazzi con sindromi autistiche che si perdono e che non trovano aiuto da una popolazione culturalmente impreparata.
Nella lista di discussione Autismo33.it dell’ANGSA (Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici) e in tanti interventi, sono state proposte alcune possibili soluzioni per ovviare a queste difficoltà: un braccialetto come per i diabetici o una catenina al collo coi propri dati, etichette cucite nei vestiti, un tablet o cellulare e così via.
Nella mia esperienza di mamma, anch’io mi sono trovata di fronte a questo problema. Anche mio figlio, infatti, è stato scambiato per un drogato da uno sprovveduto autista di autobus che – per molte ore ad ogni capolinea in cui la corsa si fermava e mio figlio non scendeva, non trovando mai la fermata di casa – non gli rivolgeva la parola, come se fosse “invisibile” e come se fosse giusto e socialmente corretto non rivolgere la parola a un tossicodipendente.
Varie volte ho tentato di risolvere il problema con la tecnologia. Quest’ultima, tuttavia, aiuta fornendo i tomtom più sofisticati, i segnalatori contro i furti d’auto più efficaci, ma non aiuta a fornire un localizzatore GPS, che risponda subito su richiesta e che dia gratuitamente la posizione del ragazzo, assicurando anche un tempo di carica ragionevole (almeno un paio di giorni).
Se mio figlio avesse avuto questo localizzatore, non avremmo dovuto ricorrere a polizia, carabinieri, elicotteri, cani poliziotto, tutte cose che le forze dell’ordine, in questi casi, molto generosamente e professionalmente mettono a disposizione.
Devo anche dire che forse il motivo che ci spinge a non mettere cartelli evidenti con i dati dei nostri ragazzi è che tali “segnalatori di disabilità” ci appaiono come una sorta di “marchio H” e quindi come una discriminazione e un ritorno a un passato e a una mentalità non più accettabili.
Tutto ciò si scontra però con il tentativo di dare la maggiore autonomia possibile, di spingere le persone a fare qualche passo da soli. In effetti, i genitori di ragazzi con autismo sono bravissimi, come “terapeuti”, a dare autonomie nel mangiare, nel vestirsi e nella vita quotidiana, ma sollecitare il ragazzo a fare qualche passo da solo diventa una prova quasi insuperabile, soprattutto in Italia, dove in genere le madri appaiono più apprensive di quelle straniere.
E allora io dico: prima di tutto la sicurezza! Cerchiamo cioè di studiare per individuare il sistema migliore, affinché un ragazzo che si muove da solo sia sempre rintracciabile, e lottiamo perché tale sistema possa essere a disposizione di tutti i ragazzi che ne abbiano bisogno. Senza dimenticare che un sistema del genere – oltre a diventare uno strumento utile ad evitare casi drammatici – aumenterebbe in realtà le stesse autonomie di ragazzi che non sanno né comunicare, né usare il cellulare.