Amalia: «Mi dispiace signore, qui non si possono scattare fotografie».
Signore: «Io… to… ndo… mio… ro!». La ventola di questo condizionatore fa un tale rumore… Signore: «So… togra… fo». È un atteggiamento di sfida, gesticola, neanche lo avessi preso a parolacce. Amalia stai calma, non farti prendere dalla rabbia, la rabbia è cosa vecchia e superata…
Amalia: «Eh? Prego?».
Signore: «Sto facendo il mio lavoro! Sono un fotografo! Oh ma sei sorda?». Sì, sono sorda, brutto pallone gonfiato! Vuoi vedere le mie protesi?
(da Amalia e basta, monologo a più voci di Silvia Zoffoli).
C’è una disabilità che è più “invisibile” di altre: vivere nel silenzio non mette in mostra, non appare e fa apparire, sembra un mondo a sé. La società in cui esiste ciò che appare, superficiale e frettolosa, a volte fa passare per quello che non si è: svogliati o distratti, insomma un po’ “stupidi”, come dimostra il breve dialogo, qui sopra riprodotto, di un gioiellino teatrale – già pluripremiato – che va in scena in questi giorni a Roma al Teatro Due [se ne legga ampiamente nel nostro stesso giornale. N.d.R.]: è la storia di Amalia, giovane addetta a un museo, sorda dalla nascita, che ripercorre la sua vita, fatta di confronto con chi ci sente, ma anche con altre persone ipoacusiche, per arrivare alla sua identità di persona, appunto Amalia e basta. La sordità che non è un’isola, ma un piccolo arcipelago, dove il mare in burrasca non mette in contatto.
È la più frequente fra le disabilità sensoriali. In crescita, come è facile intuire, con l’aumento dell’aspettativa di vita e dell’età media. I bambini che nascono in Italia con sordità profonda (lo screening uditivo, come informa «Corriere della Sera Salute», è salito all’80% nel 2011) sono oltre 1.100 all’anno, 1-1,5 per mille nati, ma può essere anche dieci volte superiore in presenza di uno o più fattori di rischio. Eppure è “invisibile” fra gli invisibili.
Quello della sordità è un mondo fatto di tanti mondi, magari diversi tra loro, a volte interscambiabili e a volte no, ma tutti uniti da una condizione che va dall’assenza di residuo uditivo (anacusia, l’impossibilità di percepire alcun suono per via uditiva) alla presenza di un residuo uditivo, magari minimo (ipoacusia, con questo residuo che può essere sfruttato da apparecchi acustici) : ci sono coloro che hanno un impianto cocleare, chi utilizza le protesi, chi la Lingua dei Segni, chi si esprime perfettamente e chi ha difficoltà nell’espressione. Insomma, mondi anche variegati, ma che spesso non comunicano, o più spesso non vogliono comunicare.
«Quelli che usano la Lingua dei Segni mi fanno capire che io sono diversa da loro. Io parlo normalmente, io leggo il labiale, io ho frequentato la scuola con gli udenti. Per loro, io sono udente. Ma io sono sorda! Io porto le protesi! Per poter parlare ho fatto anni di logopedia! Appunto, io non sono come loro, io sono un’oralista, io non faccio parte della loro comunità» (da Amalia e basta).
In Italia, già dal Congresso di Milano del 1880, venne preferito il cosiddetto metodo “oralista”, la lettura delle labbra, a quello “segnante”, l’utilizzo di quella che viene chiamata Lingua Italiana dei Segni (LIS), vera e propria lingua, con l’idea che avrebbe potuto portare a una “chiusura” (e viceversa) verso la società.
Un dibattito che centotrent’anni dopo è ancora aperto e che divide, come dimostrano le posizioni delle due associazioni italiane più importanti, l’ENS (Ente Nazionale dei Sordi) e la FIADDA (Famiglie Italiane associate per la Difesa dei Diritti degli Audiolesi). Un motivo per cui in Italia si è sviluppata meno la Lingua dei Segni è il fatto che l’italiano è lingua più “facile” da leggere sulle labbra, a differenza, per esempio, dell’inglese. L’ASL (Lingua dei Segni inglese) si è invece sviluppata molto nei Paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti. La stessa Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità incoraggia gli Stati a promuoverla.
Con la Legge 517/77, in Italia anche le persone ipoacusiche non sono più in classi speciali, ma inserite nelle scuole con insegnanti di sostegno e assistenti alla comunicazione. Ci sono ottimi esempi di insegnamento bilingue (l’ultimo nato, ad esempio, in una scuola di Milano).
Nello sport, poi, gare e manifestazioni sono fuori dal circuito olimpico e paralimpico: ogni quattro anni, infatti, si svolgono i Deaflympics, veri e propri Giochi per atleti sordi, in programma l’anno dopo l’Olimpiade. Da Rio de Janeiro 2016, per la prima volta, nel programma delle Paralimpiadi potrebbero essere inserite alcune gare dedicate a persone sorde.
E poi, il grande problema, più che mai di attualità. La scelta per i genitori di bambini appena nati, dopo lo screening, non è facile: l’impianto cocleare, con un’operazione alla testa e l’inserimento di un apparecchio che porta gli stimoli direttamente al cervello, o la strada dell’apparecchio acustico, sfruttando anche il minimo residuo uditivo. Ed è giusto che i genitori siano informati di benefìci e rischi dell’impianto, e che questo avvenga anche per gli educatori, come raccomanda, ad esempio, l’FDA (Food and Drug Administration) americana.
In sostanza, non può e non deve essere presentata una sola alternativa di fronte a un problema, come quello della sordità, che ne ha diverse. Impianto cocleare, protesi di ultima generazione, Lingua dei Segni, sport, identità e comunità: il mondo della sordità è certamente complesso, con strade diverse al proprio interno, ma in esso dovrebbero esserci dialogo, dibattito, apertura. Per capirlo, basta notare quante riflessioni sono nate da un testo teatrale come Amalia e basta, e quante ne potrebbero ancora nascere.
A volte, però, quelli che dovrebbero essere “esperti” si fanno guerra fra di loro. A sostegno di tesi. Invece l’importante sono le persone. Come sempre.