Trentacinquenne danzatore, ma anche attore, Juri Roverato è una persona con tetraparesi spastica, che ha letteralmente girato il mondo e che si è fatto conoscere in particolare per il suo percorso nella danceability, tecnica nata per consentire l’espressione tra persone con disabilità e persone normodotate. È esattamente dal 2005 che Roverato collabora con numerose compagnie di danza e di teatro, e ha anche partecipato alla cerimonia di apertura delle Paralimpiadi Invernali di Torino nel 2006.
Qual è il tuo talento?
«Ritengo che il mio talento sia vivere una vita normale. Un ennesimo cambio di prospettiva che io propongo con poche parole: “Io sto provocando, ma non voglio dare a nessuno delle soluzioni, io mi limito a provocare, perché le soluzioni che io ho trovato non sono le soluzioni che vanno bene per tutti, vanno bene per me e solo per me”. Non esiste mai, insomma, qualcosa che vada bene per tutti, ma solo ciò che va bene alla singola persona e ritenere che il proprio talento sia vivere una vita normale per una persona che viene aiutata a fare tutto, penso sia lo stesso di saper volare quando ti hanno reciso le ali. Non male, credo».
La tua disabilità come può limitare nella danza?
«La prospettiva è la stessa anche con la danza: a me non importa vedere ciò che manca né a me né agli altri. I più si lamentano per ciò che non hanno, per ciò che manca loro, per ciò che avrebbero fatto, se avessero avuto una vita diversa da quella che hanno. Credo che questa non sia vita, ma solo angoscia di vita, una vita che non avrebbe senso di essere vissuta. Sono Juri proprio perché sto vivendo questa situazione, altrimenti sarei qualcos’altro o qualcun altro».
Come ti sei appassionato alla danza?
«Avere incontrato la danceability è stato veramente casuale, cercavo un corso di teatro, invece era di danza… Ho sbagliato corso, o la vita mi ha fatto sbagliare corso… Credo profondamente che la vita sia un percorso, noi crediamo di decidere, in verità abbiamo un destino che presto o tardi si realizza. Determinismo con zero possibilità di scelta. Filosofi come Democrito, Epicuro, Lucrezio, Hobbes, Spinoza, Hume hanno teorizzato che tutto è solo determinismo e che noi siamo “burattini” nelle mani degli dèi o di Dio. Con questo pensiero verrebbe meno il senso di dovere morale umano e chiunque potrebbe fare di tutto senza averne colpa. Io penso che le cose vadano un po’ col determinismo e un po’ con le scelte, ma sono convinto che quando è destino che le cose vadano in un determinato modo, non ci sia niente che le faccia deviare e ciò che crediamo casualità sia in verità proprio il nostro destino».
Ma che cos’è esattamente la danceability?
«“Tutti gli uomini sono uguali”: questa semplicissima frase è presente o dovrebbe essere presente nella mente di ogni uomo, non solo a livello concettuale, ma anche a livello pratico e concreto. E non è uno slogan, ma mi sembra proprio la descrizione più semplice che si può dare di questa tecnica: una danza, una scoperta, un incontro. Rivolta a tutte le persone, la danceability non richiede una preparazione fisica particolare, ma solo il desiderio di scoprire se stessi, il proprio corpo, le proprie potenzialità psicofisiche e l’altro. Spesso l’“altro” diventa una persona con cui si possono trovare nuovi canali di comunicazione rispetto a quelli usati nel vivere quotidiano. A questo proposito sembra che la danceability divenga spesso un mondo separato da quello esterno, una parentesi che si apre col cerchio iniziale e si chiude con quello finale, però… non è sempre così: infatti, vengono dati stimoli che possono essere portati anche fuori, suggerimenti applicabili anche al mondo esterno, con le dovute modifiche, esperienze che fanno crescere o, per lo meno, che fanno provare qualcosa di nuovo e di diverso ma che può essere proiettato nel mondo vissuto.
Tutte le persone possono praticare la danceability, perché tutte le persone hanno un proprio corpo, hanno dei movimenti personali, hanno qualcosa da dare e hanno bisogno di ricevere in cambio qualcos’altro: la danceability è anche questo, uno scambio di emozioni, uno scambio di opinioni, uno scambio di movimenti. Ogni persona – qualunque sia il suo grado di abilità o di disabilità – può dare e ricevere, può muoversi, può danzare, può… perché è unica e speciale per la sua unicità.
La danceability, in sostanza, si propone proprio questo: cerca di far danzare ogni persona, di metterla in relazione col proprio corpo, di farla comunicare con gli altri attraverso danze improvvisate che assumono spesso l’aspetto di dialoghi comprensibili per tutti. L’improvvisazione ne è una delle basi, è la sua origine e la sua creatività. Ci possono essere anche brevi spezzoni preparati, ma l’improvvisazione ne resterà sempre il cardine portante, ma alla fine, comunque, non si cade mai nella casualità, ma si riesce sempre a restare nella danza. Danze personali, danze di coppia, danze con le carrozzine, danze di piccoli gruppi, danze di grandi gruppi: tutto questo è danceability, ma soprattutto emozioni, nuovi modi di guardare se stessi, gli altri e il mondo, nuovi modi di porsi con gli altri. E si raffinano anche tutti i propri sensi, attraverso lavori specifici che li potenziano e li esaltano.
E poi, ultimo aspetto, ma senza dubbio uno dei più importanti, il rispetto! Il rispetto per se stessi, per il proprio corpo, per la propria mente e per gli altri. Il coraggio di dire “per me questo è troppo!”, “piano, mi stai facendo male!”, “ehi, fermo, ci sono anch’io”. La scoperta che ci si può fermare o che si può fermare l’altro, nel momento in cui ci si accorge che si stanno superando i propri limiti. Tutto questo non è un’esaltazione della debolezza, anzi è sinonimo di forza e di maturità: se qualcuno non ce la fa, significa che deve trovare altre strade per fare lo stesso percorso, significa che ha la maturità per dire: “Ho dei limiti, ma posso farcela anch’io!”. Ed è proprio qui che abilità e disabilità si fondono e si confondono: tutti siamo abili, tutti siamo disabili, perché tutti siamo uomini!».
Dove insegni questa disciplina?
«In giro per il mondo. Attualmente sto investendo molto in Emilia, regione magica, senza escludere in ogni caso le altre occasioni».
Se dovessi scegliere: la danza come lavoro o come passione?
«Credo di aver – pur con fatica – realizzato il sogno di tutti: aver fatto della propria passione il proprio lavoro. Ciò non esclude che ho mille altre passioni, ma sicuramente ho la fortuna di cercare di guadagnarmi da vivere facendo ciò che adoro».
Cosa ti ha portato l’arte della danza e quali obiettivi hai raggiunto ballando?
«Mi ha cambiato la vita: le aspirazioni erano di trovare il posto fisso e vivere una vita anonima, ora sono insegnante e formatore, non ho più alcuna timidezza, ho la capacità innata di confrontarmi con tutti e di stare con tutti. Se prima stavo in ultima fila, ora sto in cima al palco e mi diverto pure, ci sto veramente bene. Per me è stato un cambiamento radicale».
Ti sei laureato. A cosa è servito il percorso universitario?
«Sono laureato in filosofia con lode. Questa è una ricchezza personale che permette di dare risposte e fare domande interessanti agli altri. In teoria nel mio lavoro non serve, in pratica io uso la filosofia in tutto ciò che faccio. La laurea non serve a trovare lavoro, se fatta bene, serve a riempire la propria anima, dissetando la propria sete di conoscenza, capendo che i traguardi non si raggiungono mai, ma ogni giorno si cresce e si cammina per andare oltre al luogo in cui si è».
Credi che il movimento possa essere strumento di integrazione?
«Penso che tutti dovremmo usare di più il corpo e meno la mente per tutto. Integrare è un problema esclusivamente mentale. La mente si fa di quei viaggi assurdi e perde troppo spesso il senso della vita. Il “diverso” spaventa sempre, l’ha sempre fatto e sempre lo farà. Nessuno è in grado di integrare veramente gli altri perché siamo tutti dediti a coltivare il nostro “orto” e tagliamo le mani a chi “ruba la carota”. Non basta fare un’attività per integrare e accogliere l’altro. La cultura occidentale è molto egoista ed egocentrica da sempre, è nata così, morirà così. L’“altro” – chiunque egli sia – spaventa o ci fa provare invidia. Forse è un problema biologico, anche fra gli animali la vita dell’uno comporta la morte dell’altro».
Cosa puoi dire dello spettacolo “da favola” che stai promuovendo?
«Alovaf è uno spettacolo meraviglioso, ricco di spunti e riflessioni. Credo voglia riflettere l’uomo in sé, esaltandone i pregi e mettendone in luce i difetti ed è uno spettacolo intrigante che coinvolge tutti, bambini e adulti, con un linguaggio semplice, ma con messaggi molto profondi».
Fai anche l’attore?
«Tutti siamo attori sul palcoscenico della propria vita e i riflettori sono sempre accesi. Ho fatto e faccio l’attore in alcuni spettacoli, ma io comunque mi ritengo più danzatore che attore, lo sento più mio».
Cosa significa avere passione per la danza e amare questa disciplina?
«Avere passione significa fare qualcosa che ti piace e farla bene. Avere la passione significa dare tutto te stesso per ciò che si fa».
Quali sono i tuoi desideri per il futuro?
«Al futuro chiedo davvero solo di star bene con me stesso».
L’intervista è già apparsa nel blog creato da Marta Pellizzi “True Realities – Vere Realtà (di talento)”, con il titolo “Dance-ability: Juri Roverato la racconta” e viene qui ripresa – con alcuni riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.
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