Francesca Schipa ti travolge con le sue parole, così sognanti e così penetranti. Perché lei, con le parole, ci lavora. È infatti caporedattrice della rivista letteraria «Letteratu». A cinquant’anni e con un passato non proprio convenzionale, ha imparato a vivere attraverso l’amore per le sue bambine e – da scrittrice – ha voluto raccontarsi, scrivendomi così: «Mi presento: Francesca, quasi cinquant’anni, mamma di due bambine, scrittrice. Ah… sì, certo, disabile. Già, già. Dalla nascita, una malformazione alla gamba sinistra, un’infanzia di paesaggi bianco sporco e verde operatorio. Punto di vista: stesa. Movimenti pochi, gesso moltissimo e le firme sopra che non bastano a renderlo migliore. In-terventi, in-fezioni, in-felicità, in-valida: copione da ripetere senza lieto fine. Ma anche primi amori e corse sulla sedia a rotelle e la prima sigaretta che fa male, ma quando ti imbottiscono di morfina perché le ossa gemono, i tendini tirano, la pelle si strappa, fumare è buono. Ho smesso, ora, da tempo. Smesso con gli ospedali, smesso con gli interventi, smesso con la sedia a rotelle, smesso col fumo. Vivo in bilico, aspettando il momento in cui ritornare alle rotelle, bambina. Non guarirò più, ma non ha più importanza. Non per me. Cosa posso raccontare di me, se non che mi ritengo fortunata? Ho avuto molto dalla vita, più di quanto sognassi quando ero in-qualcosa e spero di non aver finito di apprezzarne le forme, il profumo, il sapore. Se dovessi chiedermelo, se dovessi dirti qual è il sapore della disabilità, penserei a una mela cotogna. La immagini? Impossibile mandarla giù così com’è, nonostante il profumo. Devi trasformarla, ridurla ad altro, farne qualcosa di commestibile. Quasi di buono, alla fine. E anch’io, alla fine, mi sono masticata a lungo, e ho perso legnosità e asprezza, ho imparato ad amare le mie figlie e me attraverso di loro. E scrivo. Ho talento? Non ne sono certa. Qualche briciola, forse. Ma niente di straordinario».
A questo punto era d’obbligo fare a Francesca qualche domanda, in modo da approfondire la sua conoscenza e i suoi pensieri.
Qual è il tuo talento?
«Il mio talento è scrivere, ma l’attività della scrittura ha bisogno di un lettore cui piaccia quello che scrivi: è il lettore a decretare il tuo talento. Comunque, grazie a questo mio talento, sono diventata caporedattrice di “Letteratu”, responsabile del Laboratorio di Scrittura della rivista».
Come ti sei appassionata alla letteratura e alla scrittura?
«Ho iniziato ad amare la scrittura tardi, incontrando un personaggio storico molto particolare, una donna fuori dal suo tempo, Émilie du Châtelet. Insieme a un’amica [Maria Paola Tocci, N.d.R.] ho scritto un romanzo su di lei, Verrà l’inverno, edito da Argo [Lecce, 2008, N.d.R.]. Ma il mio amore per la letteratura risale a molto lontano: non sono stata una bambina libera di correre a mio piacimento, anzi. Avevo quattro anni e un divaricatore che mi bloccava dalla vita in giù, quando mia madre mi regalò un “biglietto per la libertà”: un enorme libro di un’enciclopedia per ragazzi che si intitolava Miti, leggende e fiabe. Su quelle pagine ho volato, corso, camminato, nuotato, incontrato divinità, principesse e orchi: la sirenetta che soffriva ad ogni passo di quei piedini mutuati mi sembrava sorella, e ho aspettato a lungo che Peter Pan venisse a portarmi via da questo mondo-che-c’è-sin-troppo. Quando sono cresciuta è stato difficile staccarmi da quel mondo plasmato a piacere tra mostri e meraviglie, e forse da lì è nata l’esigenza di creare un mondo parallelo anche attraverso la scrittura».
Quando è arrivato l’amore, la disabilità ha influenzato?
«Poi, arriva il tempo degli amori. E non c’è mondo fantastico che tenga, quando ci si trova mano nella mano, bocca sulla bocca. La disabilità ha influenzato gli altri, mi ha influenzata? Sì, non è facile amare quando non ci si ama: come pensare che un altro potesse amare quello che io per prima detestavo? Pensavo di aspettare il principe e invece cercavo Biancaneve rinchiusa nella sua prigione di cristallo. Ho trovato l’amore vero con le mie figlie, un amore fatto di fierezza e gioia e tenerezza: sono sane, belle, vive. E anche se non sono mie, è da me che vengono. Guardarle mi riempie i polmoni di respiro. Corro sulle loro gambe, rivivo ogni momento con loro».
Le tue bambine come vivono il fatto che hanno una “mamma super”?
«Hanno una mamma super? Non saprei, non credo. A volte vedo che soffrono delle mie cicatrici, delle mie impossibilità. Ma sono sempre pronte a tenermi per mano. Hanno una mamma che le ama profondamente, spero siano orgogliose di questo».