Se l’inglese Stephen Hawking fosse nato in Italia si sarebbe laureato? E sarebbe diventato uno dei più autorevoli cosmologi e matematici viventi? Non credo, faticano i giovani senza disabilità a realizzarsi nel mondo accademico, figurarsi chi ha difficoltà maggiori… Certo, i primi sintomi della malattia progressiva di Hawking si manifestarono durante il suo periodo universitario, ma già a vent’anni si trovò a muovere con difficoltà le mani. Era il 1963. Poco meno di cinquant’anni fa. Arrivò in fondo al percorso di studi e non si fermò, più nonostante l’aggravarsi della sua condizione.
Ripenso a lui, mentre leggo la notizia del cagliaritano Paolo Puddu, persona con tetraparesi spastica, che due giorni fa si è laureato con 110 e lode in Lettere. Lo ha fatto discutendo con gli occhi (unico organo che riesce a muovere e che utilizza per indicare le lettere scritte su una tavoletta) la tesi di laurea su come abbattere le barriere architettoniche durante i viaggi aerei.
Le congratulazioni per l’impresa sono più che doverose, tanto quanto è doverosa una riflessione: perché il fatto che una persona con disabilità grave si laurei è una notizia? Significa che si tratta di un evento eccezionale? Ahimè, sì. A maggio del 2011 fu la volta di Giusi Spagnolo, palermitana di 26 anni, prima ragazza con sindrome di Down a conseguire una laurea in Lettere (quella volta il voto fu di 105/110). Altri sparuti hanno conquistato l’ambito traguardo, vincendo dapprima le resistenze di un ambiente diffidente e impreparato, poi le difficoltà legate allo studio e agli spostamenti… Mi viene in mente una canzone di Gianni Morandi: uno su mille ce la fa!
Qualche giorno fa, durante un convegno su Lavoro, università e disabilità che si è tenuto a Bologna all’interno di HANDImatica 2012, il sottosegretario al Welfare Maria Cecilia Guerra ha tracciato un quadro allarmante della situazione scolastica per le persone con disabilità, il cui abbandono scolastico ci colloca agli ultimi posti in Europa. Né va meglio con gli iscritti alle facoltà universitarie. Stando infatti ai dati del sito Disabilità in cifre.it (fonte ufficiale dell’Istat), dall’anno accademico 2000-2001 all’anno accademico 2007-2008, gli studenti con disabilità passano da 4.813 a 12.403 iscritti. Pochi, se confrontati con i circa tre milioni di disabili italiani.
Ma l’università è solo la punta dell’iceberg, poiché i problemi partono dalle scuole dell’obbligo. Se, come spiega il rapporto Centralità della persona: realtà o obiettivo da raggiungere?, promosso dalla Fondazione Serono e realizzato con il Censis, «la situazione italiana ha rappresentato un’esperienza di assoluta eccellenza nel panorama europeo: a partire dall’inizio degli anni ’70 un numero crescente di famiglie di bambini e ragazzi con disabilità (fino ad allora oggetto di educazione differenziata) ha iscritto i propri figli nelle scuole normali», dall’altro lato si fa tuttavia notare come «le risorse dedicate alle attività di sostegno e di integrazione degli alunni con disabilità nella scuola appaiano spesso inadeguate: secondo la recente indagine dell’Istat, relativa all’anno scolastico 2010-2011 e dedicata specificamente al tema dell’integrazione scolastica degli alunni con disabilità nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, circa il 10% delle famiglie degli alunni con disabilità ha presentato un ricorso al Tribunale civile o al Tribunale Amministrativo Regionale per ottenere un aumento delle ore di sostegno [grassetti nostri nella citazione, N.d.R.]». E l’anno scolastico 2012-2013 non sembra andare meglio. Anzi.
Ma la scuola e l’università producono davvero cultura dell’inclusività? Se mi guardo intorno e parlo con chi conosco e frequenta – si fa per dire – queste realtà la risposta è no. Certo, ci sono casi come quelli di Puddu e Spagnolo, ma poi ci sono decine di altri studenti che arrancano per cercare di adeguarsi alle rigidità di un sistema poco preparato ad accettare le diversità. Impreparato, per esempio, ad includere chi non può essere fisicamente presente alle lezioni. E in questo caso le tecnologie informatiche verrebbero incontro non solo agli studenti con disabilità, ma anche a tante altre categorie di studenti, come ad esempio quelli che lavorano per mantenersi agli studi.
Viene il sospetto che le nostre scuole e le nostre università trasmettano, e talvolta, producano, sapere, ma non cultura. Concetti, regole, formule matematiche, ma non pensieri, idee e inclusione.
Il presente testo, qui riproposto con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, è stato pubblicato da “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Gli occhi di Paolo valgono una laurea”.Viene qui ripreso per gentile concessione dell’Autore e del blog.
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