Lunedì 3 dicembre, Giornata Internazionale dedicata dalle Nazioni Unite ai diritti delle persone con disabilità. Retorica? Rito che si ripete? Inutile ipocrisia pubblica di facciata? Ne facciamo a meno? Tanto non serve a niente e la realtà è sempre più dura? Sono le domande che tutti ci siamo posti, in questi giorni. Per stanchezza, per delusione, per paura di fronte agli effetti della crisi, che colpisce in tutto il mondo le politiche di welfare e di inclusione sociale.
Eppure no, non sono d’accordo. Sarò un inguaribile ottimista, ma sono convinto che le parole servano, che i momenti di riflessione aiutino a serrare le fila, e a fare rete. Solo il silenzio può renderci davvero “invisibili”.
Ecco, forse le recenti parole di Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite («colmare il divario tra le buone intenzioni e le azioni attese da tempo») possono davvero apparire un po’ di circostanza, visto che la Convenzione delle Nazioni Unite, approvata più di sei anni fa, e dall’inizio del 2009 legge anche nel nostro Paese, è ancora un “oggetto misterioso”, non solo per chi governa, ma anche per gli addetti ai lavori, gli operatori del settore, persino moltissime persone con disabilità, che pure dovrebbero stamparla e tenerla sul comodino.
Ma c’è almeno un buon motivo per non rinunciare al 3 dicembre: è la memoria. La storia dei diritti, di come eravamo. Quello che abbiamo vissuto, condiviso, cambiato, sofferto. Da soli, in famiglia, e poi, insieme, attraverso le associazioni e il movimento dei diritti civili. In Italia, nel mondo, ovunque. Perché è vero che oggi si stima un miliardo di persone con disabilità nel globo. Ma a me questi numeri enormi lasciano sempre perplesso. Preferisco pensare a un volto, a una storia, a una singola persona. A un ricordo che non svanisce. Bella, ad esempio, l’idea della mostra realizzata a Roma in questi giorni dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), tutta basata sulle foto storiche, raccolte nei pochi archivi che le hanno conservate. Ottima, poi, l’idea della CPD (Consulta per le Persone in Difficoltà) di Torino di dedicare la giornata a una riflessione sul tema forte del diritto ad amare ed essere amati.
Vi sarò presente anche io, perché forse a sessant’anni qualche ricordo da condividere ce l’ho. Non per dare consigli (potendo ancora «per poco tempo dare il cattivo esempio», parafrasando De André), ma per affrontare con la massima leggerezza possibile uno dei più aspri tabù che condizionano la vita di tante persone con disabilità, uomini e donne, giovani e meno giovani.
Dicevo della memoria, non a caso. Assieme a me, fra gli altri, a Torino ci sarà Antonio Guidi, non in veste politica, ma proprio con la sua storia di uomo nato con una tetraparesi spastica, il 13 giugno del 1945. Ha raccolto da poco i suoi ricordi in un libro tenero e appassionato, appena uscito (Con gli occhi di un burattino di legno [Rubbettino Editore, N.d.R.]).
Conosco Guidi da tanti anni. Prima uniti dalla politica, poi divisi, ma mai lontani sull’idea di fondo, che la disabilità sia una condizione di vita unica e irripetibile, da vivere con forza e ironia.
Sette anni di distanza sono pochi, e nei suoi ricordi (la mancanza di inclusione scolastica nei primi anni di studi, lo stigma della gente, la meraviglia per le prime conquiste), rivedo tante delle situazioni che pure io ho vissuto. Compresi gli amori, gli innamoramenti, il rapporto con il proprio corpo, con il desiderio, con gli affetti. La vita è tutto questo, non solo il 3 dicembre, ma ogni giorno dell’anno. Parlarne in modo serio è importante, perché solo la condivisione aiuta a cambiare la cultura attorno, a uscire dall’invisibilità e dal pregiudizio. E ognuno di noi, volendo, può sforzarsi di non essere banale o ripetitivo. Portando il proprio contributo, con un pensiero, un’idea, una proposta, un ricordo.
Buona vita, amici disabili e non.