La ricerca scientifica, l’approccio clinico alla malattia, la società: sono stati molti i cambiamenti – negli ultimi vent’anni – che hanno interessato il campo delle patologie genetiche, e anche in ambito di malattie neuromuscolari [lo specifico settore di ricerca dell’autore di questo articolo, N.d.R.], gli sviluppi nel settore delle metodologie di ricerca hanno portato a un notevole incremento della produzione scientifica. Oggi, quindi, grazie soprattutto ai progressi raggiunti in ambito genetico, possiamo prospettare per il futuro la possibilità di trattare molte di queste malattie in maniera combinata, sia farmacologicamente, sia con la terapia cellulare che con quella genetica.
Nell’attesa che ciò avvenga, si sono avuti, parallelamente, importanti cambiamenti anche nell’approccio clinico, che se fino a qualche decennio fa era di tipo esclusivamente medico, rivolto alla malattia più che al paziente, ora invece guarda sempre più alla persona nella sua complessità, ai bisogni legati non solo alle problematiche fisiche, ma anche a quelle psicologiche e sociali.
Ma nel frattempo, che cosa è successo nella società? La disabilità è da sempre parte della storia dell’umanità, sebbene per secoli alle persone con disabilità non sia stato dato modo di esprimersi e raccontarsi. Pertanto, quello che sappiamo oggi ci è stato trasmesso da ciò che altri hanno scritto o rappresentato.
Nell’antica Grecia, ad esempio, si sa che era diffusa la concezione secondo cui l’uomo malato – e perciò “brutto” – aveva «qualcosa di innaturale e immorale», per cui a Sparta i neonati venivano esaminati alla nascita e, se “minorati”, lanciati dal Monte Taigeto.
La sofferenza causata all’epoca dalla discriminazione e dall’esclusione è ben rappresentata in 300, film del 2007, dove Efialte – spartano deforme scampato alla morte sul Taigeto, ma costretto a peregrinare sul monte – nonostante le informazioni segrete fornite al re spartano Leonida, che gli avrebbero consentito di vincere un’importante battaglia contro i Persiani, si vede rifiutare da quest’ultimo il permesso di combattere con i trecento guerrieri che compongono la sua scorta. Infatti, pur essendo apprezzato per il suo spirito guerriero, Efialte – che a seguito di ciò si vendicherà, “vendendosi” ai Persiani, in cambio di un posto nel loro esercito – viene rifiutato a causa della sua deformità, che non consentendogli di sollevare lo scudo, danneggerebbe gli Spartani.
Per le persone con disabilità, trascorrono quindi secoli e secoli di rifiuto e di esclusione dalla società. Si pensi, ad esempio, alla concezione della “disabilità come castigo di Dio”, che caratterizza il Medioevo, ma anche a due bellissimi dipinti del Cinquecento di Pieter Bruegel, ove emerge drammaticamente la stessa percezione negativa. Nella Parabola dei ciechi, infatti, rifacendosi a un passo del Vangelo di Matteo («Se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa»), sono raffigurati sei ciechi che avanzano in fila indiana, ciascuno appoggiandosi sulla spalla dell’altro, inconsapevoli di un fossato davanti a loro. Il primo vi è già caduto e il secondo lo sta per seguire, trascinando tutti gli altri. Negli Storpi, invece, sono rappresentati cinque mendicanti storpi e deformi, che si muovono tra stampelle, indossando sonagli, modalità in uso per i lebbrosi il cui passaggio doveva essere preannunciato.
Né si può dire che la situazione migliori nemmeno alla fine dell’Ottocento. In The Elephant Man, infatti, bellissimo film biografico del 1980, John Merrick, londinese di fine secolo, reso deforme dalla sindrome di Proteo, è costretto, per non essere deriso, a indossare un cappuccio, tranne quando il suo “padrone” lo costringe ad esibirsi in spettacoli per strada, trasformandolo in un fenomeno da baraccone. Durante uno spettacolo, viene scoperto da un medico che – impietosito e scientificamente incuriosito – lo porta in ospedale, rivelandone tutte le caratteristiche di gentiluomo. Il problema è che la sua deformità non gli consente una vita comune, cosicché anche per l’alta società londinese dell’epoca, egli rimane un fenomeno da baraccone, che dopo essere stato rapito dal suo ex-padrone e ricondotto alla precedente schiavitù, alla fine decide di togliersi la vita.
Le prime aperture verso le persone con disabilità – come ci anticipa lo stesso ruolo svolto dal medico di The Elephant Man – si hanno proprio con l’evoluzione della medicina verso la biologia e la genetica (ma anche la psichiatria), passando da un atteggiamento di “curiosità scientifica” a un vero interesse per la cura.
Si tratta di un’evoluzione che riguarda già la prima metà del Novecento e che trova sostanza in esempi celebri come il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt, ritratto più volte in carrozzina, ma anche nella pittura, con Frida Kahlo e il suo noto Autoritratto con ritratto del Dr. Farill del 1951, in cui l’artista dipinge se stessa in carrozzina.
Tanta strada è stata percorsa da allora fino ai giorni nostri in tema di inclusione sociale delle persone con disabilità e per la costruzione di una loro rappresentazione non più stigmatizzante. Oggi, infatti, sono in molti a studiare, laurearsi, lavorare, fare sport. Eppure siamo dovuti arrivare all’inizio del XXI secolo, con la necessità di una Convenzione ONU che sancisse ancora una volta i loro diritti, un Trattato, però, tutt’altro che applicato, in troppi Paesi del mondo.
Si può dire dunque che se da una parte il progresso della scienza e della tecnologia continua ad essere estremamente rapido – tanto che nel campo della ricerca sulle malattie neuromuscolari si è fatto in vent’anni anni più che nei centocinquanta precedenti e che in quello clinico, l’aspettativa di vita per alcune malattie è praticamente raddoppiata -, in campo sociale, invece, per quanto si faccia, sembra che non sia mai abbastanza.
Ciò che ancora manca, infatti, è una cultura della disabilità e della diversità in generale ed è in questa direzione che bisogna andare, pur con la consapevolezza che probabilmente nulla è più difficile che realizzare un cambiamento culturale.