Eletto nel luglio scorso presidente del Centro Nazionale per il Volontariato, Edoardo Patriarca ha raccolto dall’ex presidente Giuseppe Zemberletti il testimone che era stato della fondatrice Maria Eletta Martini. «Il volontariato – tiene subito a precisare Patriarca, aprendo questo nostro incontro, in occasione della Giornata Internazionale del Volontariato del 5 dicembre – non deve farsi percepire come una delle tante corporazioni che ci sono in Italia. È giusto condurre unitariamente alcune battaglie, come quella per il 5 per mille o per la garanzia delle risorse economiche, ma l’anima che deve muoverci è lo sguardo verso il futuro e verso le situazioni di fragilità. Oggi ci sono fragilità che rimangono sotterranee e sconosciute, vanno presidiate».
È certo che in un momento come questo l’innovazione e la spinta creativa possono far tornare il volontariato protagonista della società, anche perché le associazioni godono di una grande fiducia da parte dei Cittadini. Ma la sfida non è semplice, da dove ripartire e quali sono le frontiere che abbiamo di fronte?
«Il nostro volontariato sta invecchiando, la capacità di intercettare un mondo giovanile – che in Italia è anche minoritario – non è così facile. Spesso ci si appella ai giovani per fare un servizio e non per offrire una proposta di vita. Benissimo fare il servizio del 118, ma dietro a questo dovrebbe esserci un’idea di comunità, una visione.
Prendiamo ad esempio il tema delle dipendenze da gioco d’azzardo che vede come vittime privilegiate i giovani, spesso giovanissimi, come pure gli anziani. Immagino l’accompagnamento di una generazione che rischia di non incontrare adulti capaci di appassionarli alla vita della città e l’idea che si vive bene solo se si hanno relazioni di amicizia. Credo che il volontariato “educativo”, e le sfide connesse, dovrebbe diventare un campo d’azione non specialistico, al di là delle associazioni che lo fanno per vocazione. Dovrebbe invece essere una costante presente in tutte le espressioni del volontariato. Dov’è che oggi i ragazzi incontrano i percorsi di passione per la città e la comunità in cui vivono? Dov’è che assumono l’idea che esista un bene comune? Dove comprendono che l’impegno non è solo un fatto moralistisco, ma anche un modo per stare bene?
La scuola e la famiglia hanno molti limiti e le associazioni di volontariato sono luoghi importanti in cui sperimentare dedizione, disciplina, fedeltà agli impegni presi. Sono virtù civiche che oggi possono essere testimoniate e trasmesse alle giovani generazioni da un volontariato, di qualsiasi tipo esso sia, che svolga un ruolo educativo. Non sono solo servizi, ma percorsi in cui due libertà si incontrano.
Un altro ambito da presidiare è quello che riguarda il nostro patrimonio artistico, che rischia di essere deturpato o abbandonato. È un volontariato che rende questo Paese migliore e può essere anche volano di una ripresa economica. Tenere aperti luoghi che altrimenti rimarrebbero chiusi è un’azione utile che rievoca la bellezza e la riscoperta del bello che è l’altra faccia del bene.
Poi il volontariato vicino alle famiglie: ce ne sono in grossa difficoltà, con genitori che vivono l’esperienza del “sandwich”, dovendo crescere i figli e assistere i genitori. Possiamo immaginare strumenti di reti di volontariato familiare in cui le famiglie riscoprono il mutuo aiuto? Anche i Comuni possono aiutare a far riscoprire questo aspetto.
Non dimentichiamoci poi il tema delle povertà che è oggi assolutamente da presidiare, mentre un’altra frontiera importante è quella dell’integrazione degli immigrati. Mi chiedo: chi può farsi strumento di integrazione e cittadinanza attiva di famiglie che continueranno a giungere nei nostri Paesi? È chiaro che gli Enti Locali non ci possono arrivare, mentre il mondo del volontariato può integrare e favorire le diversità anche tramite volontariato etnico».
Non si intravede il forte rischio che sul volontariato ci sia troppa pressione, soprattutto in questo momento di crisi?
«È un rischio incombente, mai come oggi si parla di volontariato e si fanno tanti attestati pubblici di riconoscimento al volontariato. Questo è pericoloso. Non dimentichiamoci che il volontariato, nella sua autonomia, ha anche il compito di aprire confronti conflittuali con le Istituzioni con cui lavora. Il rischio, forse già in corso, è che il volontariato diventi semplice erogatore di servizi a costo quasi zero, azzerando tutte le sue altre vocazioni riguardanti la costruzione della comunità. Può essere fatto con le opere, non solo tramite convegni in cui si discetta sulla solidarietà. Se un servizio non è più gestibile da un Comune e viene affidato al volontariato, per farlo a costi minori, esso va rifiutato. Il volontariato deve recuperare la sua vocazione ed esprimere sui territori delle leadership di qualità. Certo, sapersi sedere ai tavoli con autorevolezza ed entrare nella costruzione delle politiche non è facile. Vuol dire avere grande capacità di visione di un territorio. Ecco perché è bene stare insieme, condividere e non chiudersi solo in nicchie di servizi, con un approccio poliarchico in cui ciascuno si riconosce nelle proprie funzioni, in cui si interagisce in maniera paritetica e ciascuno riscopre la sua vocazione. Questo prevede anche un ruolo attivo degli Enti Locali: penso ad un Comune che non fa solo servizi, ma sostiene le reti, le anima, incrementa le responsabilità. Sono un po’ preoccupato perché non vedo luoghi in cui questa consapevolezza emerge. Spero che il Centro Nazionale per il Volontariato riesca a farlo».
Esiste anche un ruolo a livello nazionale che riguarda la associazioni ramificate in tutta Italia e le rappresentanze del Terzo Settore. Quali sono i limiti e le potenzialità di queste reti?
«Le reti attuali sono deboli e c’è molta frammentazione, la tendenza a concentrarsi sul proprio cortile e meno a guardarsi intorno e unire le forze. Forse si è conclusa una stagione, quella dell’onda lunga degli anni Ottanta e Novanta, in cui sono state fatte le leggi, in cui abbiamo costruito reti nazionali capaci di uscire dalla difesa dei propri spazi. Se le associazioni non si impegneranno, le reti stenteranno a vivere. Il livello nazionale è importante, ma molte politiche si giocano a livello regionale e territoriale. Le cose di cui stiamo parlando sono spesso in capo alle Istituzioni locali e sul fronte delle rappresentanze sui territori, mi sembra di vedere una grande debolezza. Le reti hanno la possibilità oggi di dire molto, agendo bene sul territorio e il Centro Nazionale per il Volontariato – essendo un luogo non di rappresentanza, ma di convergenza – può sostenerle e lavorare insieme ad esse per una maggiore consapevolezza. Ci vorrà molta pazienza e lungimiranza».
Quale disegno di welfare si sta affermando in Italia?
«Il rischio è che il welfare ognuno se lo faccia per conto suo, avendo in questi anni il livello nazionale rinunciato a fornire una cornice e sostanzialmente percorso la via del “non sono fatti miei”, senza ragionare di risorse e obiettivi. Il rischio è che ogni Regione si faccia il suo welfare -e già ce ne sono diversi – e che le politiche sociali siano considerate marginali e irrilevanti rispetto alla crisi. Questo processo porta alla perdita di una cultura sociale e di competenze conosciute in questi anni. Sta già evaporando un patrimonio di lettura, criteri, competenze che era stato accumulato. Spesso gli Assessori alle Politiche Sociali degli Enti Locali sono sguarniti persino dello stesso linguaggio, questo significa che si sta rompendo la filiera delle competenze e ci troveremo a decidere sulle politiche sociali persone magari di buona volontà, ma che non hanno un patrimonio di esperienze e conoscenze adeguato. C’è il rischio del “fai da te”, ognuno fa quello che può e come può, senza che si creino sui territori delle vere e proprie cabine di regia. Questo porta anche alla deturpazione del principio di sussidiarietà: non è il “fai da te”, non è solo un inno alla creatività, alla libertà. Il principio di sussidiarietà chiama alla responsabilità ed è fortemente legato al bene comune. Questa visione liberista e non dignitaria del principio di sussidiarietà ha inciso in questi anni e va combattuta. È profondamente diversa da quella evocata dalla nostra Costituzione. Se la solidarietà diventa solo assistenzialismo e non aiuta la partecipazione di coloro che vengono aiutati, non è vera solidarietà. E al volontariato spetta anche il compito di restare nel dibattito pubblico, e il Centro Nazionale per il Volontariato, in particolare, può fare la sua parte per riaffermare i valori fondativi della nostra Repubblica, che è la casa di tutti».
Come reputa l’azione dell’attuale Governo per quello che attiene ai temi propri del volontariato?
«Mi aspettavo più attenzione, al di là della vicenda dell’Agenzia del Terzo Settore, che non è certo uno dei fattori di spesa determinati coi suoi costi. Vedo, e lo dico con molto rispetto, un Governo completamente lontano dalle questioni tematiche che riguardano questo mondo. Non ha compreso che oggi questo Paese potrà tenere campo – e uscire dalla crisi anche economica – solo se saprà mobilitare ancora questo patrimonio di risorse e di generosità rappresentato dall’impegno organizzato svolto dal volontariato e dagli altri soggetti del Terzo Settore. Mi aspettavo che si capisse che il Terzo Settore non è qualcosa da sostenere benevolmente, non è un settore che merita una sorta di attenzione del “principe che concedere qualcosa”.
Bisognerebbe cominciare a capire che oltre alle imprese profit e pubbliche, esiste anche un’imprenditorialità sociale quasi sempre animata e generata dal volontariato, che può gestire servizi di vicinanza e di grande qualità e può essere anche un soggetto di buona occupazione. Due aree che hanno grandi potenzialità occupazionali, anche rispetto al dramma della disoccupazione giovanile, sono quelle dei servizi alla persona e dei servizi turistici. È bene che ci siano i privati, ma anche l’impresa sociale è vocata a farlo. Nell’ultimo Decreto del Governo non c’è un segnale di questo tipo per sostenere una stagione che potrebbe vedere i giovani valorizzati, e costruire anche un welfare utile e capace di fornire buona occupazione.
La domanda è: riusciremo a non replicare la “stagione delle badanti” in cui le famiglie si sono viste costrette a “costruirsi in casa” il proprio welfare? Si parla dei debiti che le Amministrazioni Pubbliche hanno con il mondo della cooperazione sociale, ma non si spende una parola sul fatto che così si stanno uccidendo le cooperative. Ci sono Regioni in cui le cooperative sociali stanno chiudendo e si sta dequalificando il lavoro del Terzo Settore con stipendi miserevoli. Mi aspettavo un minimo di strategia su questi aspetti che, a vederli bene, costano veramente poco. Basterebbe offrire qualche sostengo allo start up [operazione e periodo in cui si avvia un’impresa, N.d.R,.], qualche agevolazione fiscale come accade per altro in molti altri settori. I costi sarebbero veramente minimi e molte le ricadute di valore e occupazionali che potrebbero essere triplicate e quadruplicate. Poteva essere rivista la legge del “più dai meno versi”, visto che in Italia esiste ancora un forte spirito donativo. Non ci si rende ancora conto che aiuterebbe tutto il Paese far sì che il Terzo Settore cominciasse ad essere avvertito come proprietà dei Cittadini e non più come appendice o “parastato”, costruendo un apparato sussidiario moderno. A quel punto si potrebbe veramente dire che il Terzo Settore è sostenuto dai Cittadini e non solo dallo Stato. E finalmente avremo costruito una democrazia ancor più matura».