Il sociologo Norbert Elias termina il suo testo Coinvolgimento e distacco [Bologna, il Mulino, 1988, N.d.R.], invitando ad avere un “distacco coinvolto” rispetto all’oggetto studiato. Se infatti il coinvolgimento personale è sempre un “motore” per ciascuno, anche per avviare un percorso di ricerca e prendere posizione, Elias ci mette in guardia: il rischio, magari inconsapevole, è quello di piegare il rigore scientifico, per fare del sapere un mero strumento di potere, un gioco pro domo propria. In questo modo, ci si preclude la possibilità stessa di conoscere.
Nella trappola di cui avverte Elias casca abitualmente anche Claudio Roberti, come si evince sia dal suo libro [“L’uomo a-vitruviano. Analisi storico-sociologica per altre narrazioni delle disabilità nel sistema-mondo”, Roma, Aracne, 2011, N.d.R.], sia nella sua critica al mio testo, pubblicata su queste stesse pagine [“Per un nostro dibattito scientifico” di Claudio Roberti, N.d.R.].
Quando si parla di scienze sociali e si comincia affermando «nulla su di noi senza di noi», mi allarmo: l’autore sembra prendere troppo il sopravvento sull’analisi stessa. Se è vero, infatti, che gli studi sulla disabilità sono nati dalle persone con disabilità e che queste ultime possono, in molti casi (ma non sempre, giacché anche gli studi sulla disabilità si sono spesso concentrati su alcune disabilità), conoscere molto bene, sulla propria pelle, l’oggetto di studio, tutto ciò non è sufficiente a produrre maggior conoscenza. Data la carenza di analisi sul mondo della disabilità, mi accontenterei di argomentazioni e analisi all’altezza di un sapere più approfondito, capace di fare emergere l’articolazione e la complessità della realtà. Il fatto poi che a produrre questo sapere siano persone con o senza disabilità è un dato ugualmente rilevante, che svela altri meccanismi sociali.
Al contrario di chi scrive, Roberti è invece molto convinto di quella postura al punto da reinterpretarla: “nulla sulla disabilità senza di me”. Questo, infatti, è l’unico senso della critica fatta al mio libro [“Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare”, Roma, Carocci, 2012, N.d.R.]. Se avesse usato maggior distacco, avrebbe colto che il mio è un tentativo, inedito, iniziale e non esaustivo (il testo è pieno di precauzioni metodologiche che impediscono di attribuirmi l’idea che abbia voluto realizzare una summa), di individuare alcune problematiche storico-culturali (e persino sociologiche, perché no) e proporre alcune piste di analisi attorno a cui mi sembrerebbe utile fare ulteriore ricerca e attorno a cui discutere e confrontarsi.
Al contrario, la postura di Roberti non apre alcun confronto serio, né dibattito scientifico: tutto si riduce a promuovere il proprio paradigma (ignorando che i paradigmi scientifici sono l’esito di dinamiche sociali e non di auto-proclamazioni), fatto di concetti (a-vitruviano, world o global system, relabile) il cui valore scientifico è inversamente proporzionale alla sicumera con cui il suo autore li sbandiera.
Studio la disabilità in chiave storica e la sociologia mi interessa molto. Sono convinto che le due discipline non debbano “sfidarsi”, ma contribuire a produrre conoscenza. Con questo approccio e prefigurandomi la possibilità di un dibattito serio, ero andato ad incontrare Roberti a Napoli (pur non condividendone l’impostazione) [oltreché vicepresidente di ENIL Italia – European Network on Independent Living, Claudio Roberti, sociologo ed esperto-studioso in disabilità, è referente accademico dell’Ateneo Federiciano di Napoli, N.d.R.].
Insomma, mi pare proprio che di questo passo, tanto la conoscenza quanto il dibattito attorno ad essa vadano poco avanti: il prerequisito di qualsiasi dibattito scientifico, anche “tra noi” (poco importa se avviato da Roberti o da altri che ne sostengono le posizioni), è un confronto (anche duro, ma fatto di argomentazioni serie, circostanziate e non approssimative) a partire dall’onestà intellettuale. Un’altra occasione persa.