Architetta, progettista, contitolare dello Studio “Othe” di Ravenna, Piera Nobili è anche l’attuale presidente di CERPA Italia (Centro Europeo di Ricerca e Promozione dell’Accessibilità), un’associazione ONLUS il cui scopo principale è quello di contribuire alla promozione della cultura dell’inclusione sociale, contrastando la discriminazione e la marginalizzazione di qualsiasi individuo.
Attiva, infaticabile e competente sostenitrice dei diritti delle donne (tutte le donne!), è stata proprio lei a sollevare all’interno del CERPA la questione del genere femminile. L’abbiamo intervistata per parlare di questo e di molto altro.
Cara Piera, cosa vuol dire ripensare la progettazione accessibile prendendo in considerazione anche la variabile dell’appartenenza di genere? Può farci qualche esempio concreto?
«Quante cose fa una donna in una giornata? Molte ed eterogenee, elencarle è difficile perché le donne non sono tutte uguali, né vivono una vita identica, ma possiamo tracciare un sintetico profilo certamente non esaustivo. Siamo coinvolte in un quotidiano andirivieni nella città per assolvere alle diverse mansioni a cui attendiamo per noi stesse, per le amiche e amici e per la famiglia (marito, figli, parenti anziani); per svolgerle, usiamo i mezzi pubblici oltre a quelli privati, accediamo a servizi (uffici, ospedali, scuole ecc.), usiamo gli spazi del commercio (negozi di vicinato, supermercati, mercati all’aperto ecc.), viviamo gli ambienti di lavoro (quando c’è) e gli interessi personali ci portano a frequentare altri e ulteriori spazi (centri sportivi, cinema, teatro, sale conferenze, ecc.). Sperimentiamo l’alchimia dell’incastro di compiti e del tempo reso polifunzionale.
Restando nella logica della perdurante divisione di compiti che la cultura ha assegnato al genere femminile, vorrei fare, prima di tutto, una riflessione di carattere generale. L’approccio al progetto urbano tramite la categoria del tempo trasformerebbe gli spazi di vita, perché ci renderemmo conto che la conciliazione dei tempi e dei calendari di servizi, commercio e lavoro porterebbe anche a riflettere, ad esempio, sulla lontananza-vicinanza di questi dai luoghi di residenza. Non più una città distinta in zone più o meno omogenee (il cui disegno privilegia il ruolo produttivo), bensì una città “confusa”, più prossima alle necessità di coloro che lì hanno casa. Anche questa è accessibilità.
Passando invece agli esempi concreti, accessibilità per le donne è anche poter vivere in sicurezza i luoghi urbani, non temere per ciò che sono, quindi, non evitare certi spazi e certe fasce orarie, in genere serali e notturne. Questo non richiede necessariamente che i luoghi urbani debbano essere tutti telecontrollati o “invasi” da forze dell’ordine, bensì richiede che siano progettati come spazi da abitare, che siano illuminati, che non abbiano recessi in cui nascondersi, che ci siano colonnine di pronto intervento ecc. e, soprattutto, che siano resi vitali, che ci siano persone che li usano e una cittadinanza attiva che li conserva e promuove incontri, divenendo con ciò indirettamente “controllati”.
Oppure, accessibilità è potersi muovere agevolmente con i mezzi pubblici anche in presenza di borse della spesa, passeggini e bimbi piccoli, anziani da accompagnare. Mi pare quasi superfluo dire che l’agilità (quasi da palestrate) che occorre per salire e scendere da un bus, una corriera e un treno non consente di avere con sé “intralci”. Oppure, ancora, l’accompagnamento a scuola dei figli potrebbe essere evitato se fossero effettivamente diffusi i percorsi “a scuola vado da solo”, o diverrebbe agevole se gli ingressi agli edifici scolastici prospettassero su aree di salvaguardia e d’incontro, anziché direttamente sulla strada. Infine, in caso di imprevisti, poter chiamare un centro servizi che desse un’immediata risposta al bisogno, ad esempio: un genitore con l’Alzheimer che non può restare solo e l’improvvisa chiamata da scuola che informa che il/la figlio/a sta poco bene ed è da andare a prendere. Una babysitter che accompagna a casa il figlio, o una operatrice che sta con il genitore anziano per il tempo necessario sono entrambe soluzioni al problema. E via esemplificando…».
La disabilità è un concetto in evoluzione. Attualmente chi rivendica i diritti delle persone disabili può far riferimento a due strumenti: la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), approvata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001, e la Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità, promulgata dell’ONU nel 2006. Ma mentre la prima non attribuisce particolare rilevanza all’appartenenza di genere, la seconda enuncia in modo chiaro le discriminazioni multiple a cui sono soggette le donne con disabilità. Pensa che l’OMS abbia compiuto una precisa scelta politica nel non considerare questo aspetto, oppure si tratta di una “semplice dimenticanza”?
«Accetto la provocazione: “precisa scelta politica” o “semplice dimenticanza”? Se fosse vera la prima ipotesi dovremmo ammettere che l’OMS sarebbe caduta in contraddizione con i princìpi che l’hanno istituita e dovrebbero animarla, oltreché con quelli che hanno definito l’approccio culturale che ha prodotto la Classificazione e le conclusioni sulla relazione disabilità-ambiente.
Se fosse vera invece la seconda ipotesi, saremmo legittimate a pensare che un organismo così importante, sul quale investiamo attese e riponiamo fiducia, sarebbe stato superficiale, o quanto meno scarsamente attento, nell’affrontare l’analisi e la conoscenza dei soggetti di studio, ossia l’intera popolazione fatta, appunto, di uomini e donne.
E se fosse, invece, un problema di “cervello inaccessibile”, un cervello “barrierato” alla conoscenza dell’altro da sé, in questo caso le donne? La cultura maschile fatica a rivolgere lo sguardo su se stessa, a interrogarsi sul suo essere, sulle ricadute prodotte, sui rapporti di potere e sulle esclusioni che opera mediante l’oscuramento di sé a sé. Una cultura “fallologocentrica”, come direbbe Rosi Braidotti, che tutto contiene, ordina e tende ad assimilare, marginalizzando nella realtà e nel pensiero ciò che non corrisponde ad essa. Vedi le donne. Questa, secondo me, è ciò che sostiene e motiva (più o meno consapevolmente) la “scelta politica” e la “dimenticanza”».
La Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW), approvata dalle Nazioni Unite nel 1979, è stata ratificata dall’Italia nel 1985 (Legge 132/85), ma non ha ancora una traduzione ufficiale in lingua italiana. La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006) è stata tradotta in italiano ancora prima di essere ratificata (Legge 18/09). Questo vuol dire che le donne con disabilità faranno meno fatica a vedersi riconosciuti i diritti in quanto disabili, piuttosto che in quanto donne?
«È possibile, in quanto le donne condividono con gli uomini aventi pari disabilità alcune esigenze (minimi comuni) corrispondenti ai diritti stabiliti dalla Convenzione. Per questa parte, probabilmente, le (donne con) disabilità potrebbero vedere riconosciuti per primi quei diritti, mentre per gli altri, comunque connessi alla disabilità, ma patrimonio del femminile (ad esempio il diritto alla salute e alla riproduzione delle donne con disabilità), non so dire quanta fatica e quanto tempo ci vorrà per vederli realizzati.
Temo che ancora una volta verrà condotta un’azione neutra di applicazione dei diritti, in quanto le donne con disabilità subiscono l’opera del sessismo così come le altre donne, e quella del “disablismo” [la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità, N.d.R.] che a volte si affianca, altre si somma, altre ancora moltiplica la svalorizzazione.
Fintantoché non cambieranno nel profondo i paradigmi culturali che sostengono il neutro e la discriminazione, credo che faticheremo ad ottenere nel reale e concreto quotidiano il riconoscimento di tali diritti.
Come ho già avuto modo di scrivere, credo che la Convenzione sulla Disabilità resti – e con essa la Legge 18/09 -, un testo di ottimi intenti che possono essere trasferiti dal piano filosofico-simbolico e dei diritti esigibili in cui attualmente sono collocati, a quello materiale e concreto del vissuto solo se ci sarà una reale trasformazione culturale e politica e un costante aggiornamento degli strumenti d’intervento finalizzati all’inclusione sociale di tutti e tutte».
La violenza contro le donne è un fenomeno drammatico al quale non sfuggono neanche le donne disabili. Ultimamente, però, sembra di notare, almeno nella comunicazione, qualche cambiamento: un maggiore uso da parte dei media generalisti del lemma “femminicidio” per designare l’omicidio della donna in quanto tale; il tentativo di non catalogare più questi crimini e delitti come isolati episodi di follia, ma come il prodotto di una cultura che, sia pure implicitamente, quella violenza la tollera e la giustifica; un maggiore coinvolgimento degli uomini in questa battaglia (oltre all’Associazione Nazionale Maschile Plurale, penso, ad esempio, alla campagna Noino.org, promossa dall’Associazione Orlando di Bologna e dalla Fondazione del Monte, in collaborazione con molte Istituzioni locali, oppure al libro di Riccardo Iacona Se questi sono gli uomini, recentemente pubblicato da Chiarelettere). Crede anche lei che stia cambiando qualcosa su questo fronte?
«Sono fra le socie fondatrici dell’Associazione Femminile Maschile Plurale (FMP) nata a Ravenna circa quattro anni fa a seguito di un lungo percorso, durante il quale abbiamo conosciuto gli uomini di Maschile Plurale. La loro presenza all’interno di FMP (in qualità di soci) ha consentito di confrontarci e insieme riflettere, mediante incontri, seminari e pubblicazioni, sul tema della cultura maschile e della relazione intercorrente fra generi.
E a proposito dell’argomento su cui mi interroga, pensiamo che si debba spostare l’attenzione dalla vittima a colui che pratica la violenza: omicidio, stupro, maltrattamenti quotidiani. Per tale motivo abbiamo organizzato un seminario a novembre scorso dal titolo Quando la violenza prende il posto delle parole: il silenzio degli uomini, nel quale è stato presentato il servizio per uomini maltrattanti, unico in Italia, sorto a Modena circa un anno fa, facendo riferimento alle molteplici e ottime esperienze europee (ad esempio, in Francia ne esistono circa quattrocento).
Questo spicchio di realtà attiva della provincia italiana, oltre a quanto lei stessa hai citato, mi fa ben sperare, anche se sono consapevole che la strada sarà lunga e tortuosa, e occorrerà un sempre più ampio coinvolgimento in questo processo di cambiamento di donne e uomini. Ma dato che, come sappiamo bene, in un mondo dominato da uomini, gli stessi uomini di Maschile Plurale ricevono scarsa considerazione a livello culturale, politico e sociale (fino ad arrivare al dileggio), penso che noi donne dovremmo essere più determinate, senza temere il conflitto, nel mettere in discussione il rapporto di potere fra i sessi, i paradigmi e gli stereotipi a sostegno dell’organizzazione della società basata sui ruoli di genere».
Lei si occupa, a titolo di volontariato, di “medicina di genere”. Può spiegarci brevemente in cosa consiste questo approccio e l’importanza di esso?
«Debbo precisare che non mi occupo direttamente di medicina di genere, bensì se ne occupa da tempo un gruppo di donne appartenenti alla neonata Associazione Liberedonne (che gestisce la Casa delle Donne di Ravenna, un vecchio desiderio realizzatosi negli ultimi mesi), di cui anch’io sono socia, facendo parte del Comitato di Coordinamento. Hanno lavorato con i consultori e l’Associazione ha da poco realizzato un seminario intitolato Medicina di genere: perché la differenza non diventi diseguaglianza.
La cosiddetta “medicina di genere” nasce dall’essersi rese conto (donne a vario titolo impegnate in medicina) che i trattamenti medici avevano delle gravi ripercussioni sulla salute delle donne. Questo dipende dal fatto che le ricerche e le sperimentazioni erano (e ancora sono) a misura d’uomo, considerata la norma di riferimento (il famoso universale che tutto assimila a sé), al punto che persino le valvole aortiche sono di dimensioni idonee a organi maschili, più grandi di quelli femminili, divenendo per le donne sottoposte a intervento causa di morte.
Anche in medicina, quindi, vengono ignorate le specificità che riguardano il genere femminile e neppure la cosiddetta “scienza” è in grado di liberarsi dagli stereotipi e pregiudizi che alimentano la svalutazione di un genere rispetto all’altro».
Nel 2011/2012, assieme ad altri docenti, ha tenuto, presso l’Università per la Formazione Permanente degli Adulti “Giovanna Bosi Maramotti” di Ravenna, un corso denominato La storia e il pensiero delle donne – Sessismi e razzismi di genere. Può illustrare sinteticamente cosa accade quando sessismo e razzismo si combinano?
«Un piccolo preambolo. Anche questo seminario – come altri già realizzati in anni precedenti – è stato progettato da Femminile Maschile Plurale e promosso – assieme all’Assessorato Comunale alle Politiche e alle Culture di Genere – dall’Università per la Formazione Permanente degli Adulti “G. Bosi Maramotti”.
Sia il sessismo (termine coniato negli anni Sessanta del ventesimo secolo) che il razzismo (l’attuale accezione risale alla metà del diciannovesimo secolo) sono storie di dominio di un gruppo su un altro gruppo, delle quali si può tracciare un “parallelismo fra i meccanismi, i dispositivi, le strutture che reggono i due sistemi di svalorizzazione, discriminazione e subordinazione” (Annamaria Rivera); ma quando questi fattori discriminatori si combinano danno luogo alla cosiddetta discriminazione multipla. Un Rapporto della Commissione Europea del 2007 definisce la discriminazione multipla come una “discriminazione non riferibile ad un’unica dimensione, bensì agita da due o più fattori concomitanti”. Questi fattori concomitanti, però, possono essere agiti con diverse modalità: la discriminazione addittiva, che risulta da più fattori disgiunti fra loro, la discriminazione amplificatrice, dove i fattori discriminanti si sommano, e quella intersezionale, i cui fattori di discriminazione non sono separabili perché fra loro interagenti».
Margherita Hack, Christine Lagarde, Helen Mirren… resistere all’imperativo di tingersi i capelli è dunque possibile senza che la donna ne risulti sminuita. Non è solo una questione di colore. C’è in ballo il rapporto col proprio corpo, una riflessione sull’età, sul significato dei cambiamenti ingenerati dal tempo che passa, sui canoni estetici, sui ruoli, sulla libertà. Maria Laura Rodotà, ne «La 27ª ora» (un blog ospitato nel sito del «Corriere della Sera»), non esita a definire quella di non tingersi i capelli come “una scelta di campo”. Lei che significato attribuisce a questa sua decisione?
«Potrei sfuggire a questa domanda dicendo che sono allergica ai coloranti chimici. Mi potrebbe però obiettare che ci sono quelli naturali, la cuffia “mille fori” e la stagnola per fare le striature che terrebbero distante la chimica dalla mia cute, per cui non posso esimermi: ho preso una decisione non immediatamente semplice, perché mi è occorso del tempo per maturarla. Si sono intrecciate tensioni ideali (sfuggire ad archetipi estetizzanti che vogliono la donna seduttiva) al sentire soggettivo (dare valore a me stessa), ho sviluppato riflessioni sul divenire inarrestabile del corpo e sulla relazione con gli altri, mi sono rispecchiata, conoscendole, in donne anziane che resistono agli urti della vita e alla fine si è prodotto un moto di liberazione da modelli dati e da un’immagine di me stessa negli anni introiettata e perseguita a volte con fatica. Ho tratto energia dall’abbandono dell’idea di bellezza legata alla giovinezza e ho scoperto il piacere del vero, ossia della corrispondenza fra l’età anagrafica e la presenza fisica. Mi sono riconciliata con il tempo, quello del mio corpo».
La presente intervista è già apparsa nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “La sclerosi multipla non è un’opportunità”, e viene qui ripreso, con alcuni lievi riadattamenti al contesto, per gentile concessione.
Il Gruppo Donne UILDM
14 eventi e altrettante pubblicazioni della collana Donna e disabilità, tantissimi articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, varie segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, centinaia di segnalazioni bibliografiche e di risorse internet schedate: è questa la produzione del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio ambito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto attualmente da Francesca Arcadu, Annalisa Benedetti, Valentina Boscolo, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Francesca Penno, Anna Petrone, Fulvia Reggiani e Gaia Valmarin) ha deciso di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i suoi obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di un repertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità.
Nel 2011 il Gruppo Donne UILDM ha anche ricevuto da Decima Musa Caravaggio (Associazione Culturale Europea-Compagnia Teatrale) il Premio Decima Musa «per il valore di un’attività finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità, che sottolinea e affronta il problema specifico e la situazione delle donne disabili».
Il Gruppo Donne UILDM è anche su Facebook (cliccare qui).
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