Nel “Guinness dei Primati” delle attività lavorative c’è un personaggio che avrebbe ben meritato, in altri tempi e in altri luoghi, il titolo di “stacanovista”: il caregiver familiare. Si tratta infatti di una figura davvero fuori della norma, che si direbbe “piovuta da un altro pianeta”: spesso fa tre lavori nell’arco delle ventiquattr’ore, un lavoro “ufficiale”, anche se talvolta part-time e un altro lavoro che ne vale due come orario e come fatica: la prestazione di cura familiare.
Quello che noi intendiamo – o che almeno io intendo – come caregiver familiare “vero”, si identifica in chi presta amorevole lavoro di cura a vantaggio di un familiare che ne ha assoluta necessità per almeno dieci ore al giorno. In molti casi per quindici-sedici ore. Per intenderci, chi assiste una persona con disabilità gravissima che necessita – come recita la tanto amata Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – di more intens support.
La mia amica Chiara, gagliarda caregiver familiare, trattando del riconoscimento effettivo di questa figura, con tutte le conseguenze che ne derivano, così ha scritto: «Qual è il punto forte di questa battaglia? Un familiare caregiver può essere chiunque, veramente chiunque abbia un legame familiare ovvero la maggioranza della popolazione. Dall’immensamente ricco all’incredibilmente povero; è una delle condizioni più trasversali che esistano».
Per vent’anni abbiamo detto che la disabilità è una condizione che riguarda tutti, che tutti, se vivremo abbastanza a lungo, diverremo, in un certo senso, persone con disabilità. Ebbene, ora, con ugual certezza, affermiamo che le problematiche dei caregiver familiari vanno risolte, con giustizia, nell’interesse di tutti e che se non le risolveremo, non risolveremo neppure quelle delle persone con disabilità gravissima che dai caregiver familiari dipendono assolutamente.