Ci sono Mattia, che a Monza è avvocato da non molto e ha le “ossa di cristallo” per l’osteogenesi, e Sonia, che era a Genova e ora è nei pressi di Milano perché fra poco si sposa, e Giuseppe, che sta in Sicilia e ha lottato per avere un’auto da guidare con un joystick, in modo che possa farlo anche lui che si muove meno degli altri, e Andrea, che a Genova studia e va in carrozzina come fosse una moto, e Luca, che gestisce un bed and breakfast a Como e lo ha fatto proprio per tutti, e si potrebbe continuare a lungo perché la lista di quelli che giocano a wheelchair hockey, l’hockey su carrozzina elettrica, non è mica corta.
Non c’è Stefano, che a Padova, lo scorso anno, era pronto per giocarsi la Coppa Italia; lo scorso settembre le complicanze che porta la distrofia muscolare gli hanno detto di no e lo hanno portato via troppo presto da chi amava e quella gara si è giocata con lacrime per lui. Perché anche questo è il wheelchair hockey, ogni anno c’è qualcuno che manca all’appello e questo accade, anche se non è mai giusto.
La distrofia muscolare è degenerativa, a volte si blocca, a volte no. In campionato c’è qualcuno che gioca usando la mazza, un altro che invece non ce la fa più a tenerla in mano e si trovano altri accorgimenti e così può giocare lo stesso. «Il 90 per cento dei nostri atleti sono distrofici o hanno patologie neuromuscolari. Ci sono stati anni in cui durante la stagione ci lasciavano anche tre o quattro atleti»: lo dice Antonio Spinelli, rieletto nel novembre scorso presidente della FIWH (Federazione Italiana Wheelchair Hockey), uno che sa trasmettere la passione e che ha lottato, negli anni scorsi, perché questo fosse uno sport che rimanesse per tutti. E grazie all’Italia questo succede e non si sono persi i valori dello sport paralimpico (anche se il wheelchair hockey ancora non fa parte del programma della Paralimpiade e chissà se mai ci entrerà), in funzione della vittoria.
A questa disciplina è stata in gran parte dedicata anche la Giornata Nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), denominata Liberi di essere Campioni, ovvero dell’Associazione che per prima la portò in Italia, agli inizi degli anni Novanta.
Si tratta di uno sport straordinario: divertente da vedere e da giocare, utile perché permette di fare sport a persone con disabilità che altrimenti difficilmente potrebbero, appassionante e spettacolare. Ci giocano appunto in particolare – ma non solo – atleti con distrofia e altre patologie neuromuscolari. Ha le regole dell’hockey, si utilizzano carrozzine elettriche. Quelle per le gare internazionali possono arrivare a costare anche 11.000 euro e, per porre un limite, non si possono superare i 15 chilometri all’ora. Chi non riesce a usare una mazza ha un attrezzo a croce, chiamato stick, fissato ai bordi della carrozzina, che permette di colpire la palla. Ecco come diventa davvero per tutti.
È nato negli anni Settanta, insieme agli Abba e ai computer Nokia, nei Paesi scandinavi, quale disciplina scolastica per favorire l’attività fisica di persone con gravi disabilità. In Italia ci sono 31 società con 29 squadre in campionato e 330 atleti con quasi 200 fra dirigenti e volontari.
Il Campionato si concluderà ad aprile e a maggio ci sarà la Supercoppa fra Thunder Roma, primi in campionato, e Coco Loco Padova, vincitori della Coppa Italia. Ieri [domenica 20 gennaio, N.d.R.] c’è stato il derby fra Dream Team e Sharks Monza.
Prima dei Mondiali che si sono disputati a Lignano Sabbiadoro (Udine), nel neovembre del 2010, a livello internazionale non vi erano limiti in campo a utilizzare atleti con ogni tipo di disabilità: ecco allora che si potevano trovare anche persone paraplegiche o addirittura amputate. Persone che, fra l’altro, normalmente non usano una carrozzina elettrica per muoversi. Una tendenza che veniva stranamente dai luoghi in cui questo sport era nato, nel Nord Europa. Lì, per ragioni che ora qui non approfondiamo, cominciavano a mancare atleti con patologie più gravi e quindi non si ponevano limiti. Con il risultato che gli atleti che avevano disabilità maggiore venivano penalizzati.
L’idea italiana era quella più giusta: ogni squadra può entrare in campo con una soglia di punti (ora sono 10) e ogni atleta ha un punteggio legato alle proprie possibilità e disabilità (da 1 o 0,5 in Italia, come per chi non può utilizzare la mazza e usa lo stick o ha un’ostegenesi imperfetta grave, a 5, per esempio una persona paraplegica) e in campo devono esserci, su cinque giocatori, almeno due che utilizzano lo stick.
Il sistema dei punteggi è uno dei cardini dello sport paralimpico, vige anche nel basket e nel rugby in carrozzina, ad esempio. Con qualche aggiustamento e molta fatica, finalmente questo regolamento è passato anche in Europa. In gioco c’erano anche i valori: lo sport è per tutti, anche per i più deboli. Ed è il messaggio più bello che il wheelchair hockey lancia. Per questo vale la pena sostenerlo e andarlo a vedere. Non solo: è proprio divertente. Chi andrà in palestra non se ne pentirà.