La normalità non è la sola parola importante nella vita di Elena Serrao, classe 1972, donna paraplegica a causa di un incidente automobilistico all’età di diciannove anni. Un’altra parola guida che ne contraddistingue infatti la vita di madre e moglie è serenità. Questo mix di normalità e serenità è quello che ho respirato quando sono entrata per la prima volta nella sua bella casa in provincia di Cuneo.
Avevo letto il nome di Elena tante volte tra le liste degli atleti iscritti alla Polisportiva P.A.S.S.O. (Promozione Attività Sportiva Senza Ostacoli) di Cuneo, l’associazione sportiva con la quale collaboro, ma non sapevo chi fosse, perché lei aveva gareggiato per poco tempo. Poi ci siamo finalmente conosciute nella sua casa, spaziosa e solare e non avendo visto l’ascensore, il mio primo pensiero è stato: «Che fai, voli per arrivare fin qui?», poiché a causa del suo dinamismo non mi sarei stupita più di nulla…
Iniziamo subito a parlare a ruota libera da buone coetanee e il racconto della vita di Elena, intenso e sorprendente, viene fuori in modo fluido e sereno. «Sono rimasta orfana a 10 anni. Nel 1982 mia mamma è mancata e mio padre ha deciso di ripartire con una nuova vita con una donna che però, in quel momento, non accettava facilmente né me né gli altri figli. Così noi fratelli, come tutti i ragazzi che crescono in fretta, ci siamo presi cura ognuno degli altri fino alla maggiore età. Poi, finita la scuola superiore, ho deciso di realizzare i miei sogni, sposando la persona della quale nel frattempo mi ero innamorata. Con Livio abbiamo bruciato subito le tappe; in pochi mesi eravamo già sposati ed io ero una giovane sposa diciannovenne e felice!».
«Purtroppo l’infausto destino – prosegue Elena – o tu dirai la sfortuna, ci ha messo lo zampino. Livio ed io tornavamo da una serata in discoteca con altri due amici, Francesco e Gianni. Gianni, che era alla guida, è un ragazzo molto tranquillo e soprattutto molto sobrio che, purtroppo, non controllò abbastanza la macchina in una curva».
Elena si interrompe per un attimo, sorridendo. Non è doloroso per lei, ma è pur sempre ricordare l’incidente. Poi riprende: «Sono stata sbalzata fuori dall’abitacolo dalla parte posteriore perché ero seduta sul sedile posteriore, in quanto nel ’91 non c’era l’obbligo di allacciare le cinture anche dietro. Mi recuperarono tra i campi; ero stata l’unica che aveva riportato danni seri: fratture ossee varie, uno pneumotorace e soprattutto la lesione midollare D6-D7 che all’inizio si era creduto fosse totale».
Elena non ci racconta del periodo dell’ospedalizzazione, degli interventi chirurgici, della rianimazione, della debolezza fisica, della riabilitazione, forse perché non sono stati momenti idilliaci. Ci racconta invece della paura che aveva pervaso all’inizio la vita di due giovani sposi e il coraggio che insieme sono riusciti a trovare per riprendere la normalità della vita, pur con le nuove difficoltà, pur con la sedia a rotelle di Elena che ormai sarebbe stata compagna nel loro matrimonio.
«Ci facciamo un caffè?». Abbiamo bisogno entrambe di una pausa. Elena si destreggia bene nella sua cucina e arriva immediatamente con il vassoio, le tazzine e la zuccheriera. Mentre io giro ancora il cucchiaino nella tazzina, ricomincia il suo racconto. «Tutti credevano – dicevo – che la mia lesione fosse totale. Alché un medico, data la mia giovane età, e i miei traumi, mi aveva più o meno consigliato, senza troppi giri di parole, di “spararmi un colpo in testa”. E invece, riassorbitosi l’ematoma alla colonna, ho scoperto, riacquistando una certa sensibilità sulla pelle, che la lesione era parziale. Nessuno ci aveva creduto, all’inizio, ma era così. Ci misi l’anima nella riabilitazione, perché tenace com’ero, desideravo tornare in piedi, per me, per mio marito e per tutti quelli che mi volevano bene. E invece, la sensibilità è rimasta, ma di rimettermi in piedi… emh, son qui seduta da ventun anni».
«Poi – continua – tornai a casa e… dovetti rimboccarmi le maniche; all’epoca Livio studiava e lavorava e io dovevo e volevo fortemente tornare a fare le cose che facevo prima dell’incidente. Volevo fargli trovare la cena pronta, stirargli le camice e non potevo di certo lasciare la casa sporca. Per tutte le superfici, le suppellettili e i mobili che erano alla mia portata non c’era problema. Ma lavare i vetri, riordinare i piani alti degli armadi erano mestieri improponibili. Allora cercai di ingegnarmi con tutti gli ausili possibili e alla fine ero felice di essere diventata una brava casalinga. Riacquistai a poco a poco la mia femminilità e pur in carrozzina mi sentivo una donna completa. Ma desideravo di più, desideravo essere mamma. Nessuno mi aveva detto che non avrei potuto esserlo e a un certo punto Livio ed io ci trovammo a desiderare un figlio».
«Ho avuto una splendida gravidanza – dice sorridendo -: avere un figlio in grembo significava prendermi maggiormente cura di me stessa, alimentarmi bene, irrobustirmi, affrontare la vita con positività e poi… e poi nel ’93 è nato Alessandro. Mio figlio è stato in assoluto colui il quale mi ha sempre visto in modo normale, più del papà, più dei suoceri, più degli amici. E io ho trovato il modo di essere una mamma uguale alle altre. Sono stata per otto anni insegnante della sua classe nell’ambito della catechesi parrocchiale, ed è stato un modo – aggiunge strizzandomi l’occhio – anche per integrarmi con le altre mamme!».
Poi Elena ha iniziato a lavorare. «Sentivo la necessità di avere una casa dove potermi girare bene, nella quale poter fare tutto da sola e allora decisi di ristrutturare quassù, che era stato all’inizio il “nido d’amore” per me e Livio. E con il lavoro, si sa, qualcosa negli anni ho dovuto sacrificare! Ho sacrificato lo sport! Adesso non chiedermi ancora perché nell’ambito della P.A.S.S.O. non pratico più tennis in carrozzina e handbike, non sono mica wonder woman!».
Mi congedo da Elena con la promessa di tornare una sera a cena, da una donna normale e serena e proprio per questo “super”.
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