Il senso di Pistorius sta tutto in alcune foto, come quella del suo ultimo tweet, due giorni fa: lui e un bambino namibiano amputato completamente alle gambe, al quale porge la mano. E scrive: «A luglio lancerò la mia fondazione: ad almeno dieci bimbi darò la possibilità di muoversi». E ancora, una foto di diversi anni fa, che da sempre ha usato per il suo profilo su Twitter. Con Ellie, che era piccola allora e una malattia le aveva tolto braccia e gambe, a correre insieme a Manchester, entrambi su quelle lame che Oscar ha sublimato simbolo di libertà. O la foto di JJ, che il giorno di Halloween, all’asilo a New York, è andato vestito da Pistorius, esibendo bene quelle protesi, lui con le gambe amputate a pochi mesi dalla nascita. O infine quella con Bebe Vio in pista a Mogliano Veneto (Treviso) [se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.]: aveva iniziato a correre, lei quindicenne senza i quattro arti da quando aveva 11 anni, perché Oscar le aveva detto che era divertente.
Ora che è dentro una tragedia immane, che la tristezza è in primo luogo per quella ragazza e la sua vita spezzata, che si deve capire e forse non si capirà mai il perché. Ora non sarebbe forse il momento, ma è giusto farlo. Le cronache si devono occupare di quel che accaduto, degli spari nella notte, di una vita che se ne va e due famiglie distrutte. Ma si deve anche riflettere su Oscar Pistorius e su quello che è stato sino a oggi. Perché nulla sarà come prima.
«Non sono disabile, semplicemente non ho le gambe», diceva adolescente. Aveva 11 mesi quando gliele amputarono sotto il ginocchio, 17 quando mise le prime protesi. A 7 anni ha cominciato a giocare a calcio, a 11 lo scelsero per la squadra di tennis della sua regione. Intanto si divertiva con cricket e rugby. A 15 anni la mamma, Sheila, morì improvvisamente per un’allergia ai farmaci.
In quel periodo Oscar cominciò a correre. A 17 vinse i 200 metri alle Paralimpiadi di Atene 2004. Un anno dopo disse: «Ho un sogno: correre all’Olimpiade». Divenne un obiettivo. A Londra 2012 gareggiò in Olimpiade e Paralimpiade, atleta simbolo dei Giochi insieme a Usain Bolt. «Non sei disabile per le disabilità che hai, sei abile per le abilità che hai»: questo ripeteva e voleva trasmettere, che si guardassero, cioè, le abilità.
La storia serve per capire perché è diventato il simbolo delle persone con disabilità nel mondo. Milioni si sono ispirati a lui. Una persona senza gambe che nella corsa è più veloce delle persone con le gambe. Le polemiche su vantaggi e svantaggi lo avevano reso ancora più forte. La scienza aveva mostrato che quelle protesi non avvantaggiavano. Probabilmente bastava il senso comune.
Anche quella vicenda rafforzò il suo messaggio: «Mai arrendersi». Quello che bambini come Ellie e quel piccolo in Namibia hanno colto guardandolo correre e cercando di fare come lui.
Un giorno mi disse: «Devo correre più veloce che posso, non solo per me, anche per quelli che guardano a me». Sapeva di ispirare un incalcolabile numero di persone. Come quei bimbi.
Non era un supereroe. Era un ragazzo prima e un giovane poi che amava la vita e qualche eccesso. I motori e le corse con auto e moto, per esempio. Tornando da una festa, guidando una barca su un fiume di notte, aveva rischiato di morire finendo contro un pontile. Una ragazza lo denunciò perché a una festa a casa sua l’aveva cacciata in malo modo. Lui disse che era stata lei ad alterarsi. Capita quando a poco più di venti anni si è tra le persone più famose del mondo. Ma il sorriso non lo abbandonava mai.
Ora ripenso a quel ragazzo conosciuto ad Atene nel 2004, diciassette anni, brufoli in viso e l’apparecchio ai denti, che in meno di dieci anni ha saputo abbattere barriere che rompere appariva impensabile. Ha fatto più lui con le sue corse che decine di anni di convegni e parole. Ripenso a Ellie a Londra, a quel bimbo in Namibia, a JJ a New York, a Bebe in Italia.
E penso a Reeva, bellissima e dolcissima, come la ricordano le amiche. Riposi in pace.