Ho riletto recentemente quanto avevo scritto qualche anno fa nel libro Pensieri sottobanco [Erickson, 2010, a cura di Paolo Fasce e Paola Domingo, N.d.R.] e vorrei condividerlo con i Lettori, in apertura di questa mia riflessione sull’insegnamento di sostegno oggi.
«Il primo anno che ho avuto un incarico annuale (“fino al termine delle attività didattiche” ad essere precisi) ne ho avuto uno sul sostegno. É un ambito di lavoro molto impegnativo e, pure, gratificante. Ma al giorno d’oggi questo canale è la porta d’ingresso obbligata per molti che vogliano insegnare. E così capita che molti colleghi “bevano l’amaro calice” del sostegno in attesa di una cattedra sulla materia. Non sono poi molti, invero, i Don Abbondio (quelli che nascono col desiderio di diventare insegnanti di sostegno e lo diventano facendolo male), ma devo onestamente dire che sono tanti i Fra Cristoforo (quelli che non sono nati col desiderio di diventare insegnanti di sostegno, ma quando lo divengono, lo fanno più che bene) e, addirittura, c’è qualche San Carlo Borromeo (alla vocazione segue un mandato impeccabile). Da un punto di vista strutturale, a me pare che le cose vadano alla rovescia. Mi pare infatti evidente che per lavorare sul sostegno ci voglia più professionalità e preparazione, di certo motivazione, forse anche una certa predisposizione e forse, addirittura, una qualche vocazione. Tutte queste cose mi pare maturino anche con l’esperienza, e che pertanto questo mestiere dovrebbe rappresentare un’evoluzione della professionalità docente che parta dalla “didattica normale” e si avvicini, previa formazione opportuna, alla “didattica speciale”. Non mi sembrerebbe per nulla strano, stante la logicità del ragionamento, che un insegnante di sostegno, esperto e motivato, percepisse uno stipendio più alto perché questo passaggio potrebbe essere una possibile progressione della carriera di un insegnante e non vedrei scandaloso il fatto che questi fosse più coinvolto nella correzione dei compiti, nelle interrogazioni, nella didattica in classe. Ci sono anche motivi pedagogici dietro a questa prospettiva. Quanta fatica deve fare un docente specializzato sul sostegno per coinvolgere e orientare il lavoro di un collega che, spesso, ha vent’anni d’età e di anzianità di servizio più di lui? Può davvero lavorare all’integrazione dell’alunno disabile se non viene coinvolto nelle lezioni, nella didattica, nelle interrogazioni, nella correzione dei compiti in classe? Sarà coinvolto nelle lezioni, nella didattica, nelle interrogazioni, nella correzione dei compiti in classe se è giovane o se è precario? E ancora: perché un insegnante di sostegno non può lavorare “parzialmente sul sostegno”? Così facendo, mostrando anche implicitamente che egli è un insegnante come tutti gli altri, non potrebbe risultare più appetibile e quindi efficace anche quando fa l’insegnante di sostegno? – Nota di Onorina Gardella: “Certo che, se gli alunni potessero rendersi conto che l’insegnante di sostegno è capace quanto quello sulla disciplina ed è dotato anche egli di un certo potere, la sua posizione nel lavoro della classe migliorerebbe senz’altro. Tutta la psicologia sistemica, oltre al buon senso, ci dice che quando si ha cura di cambiare i ruoli all’interno di un sistema, di non farli sclerotizzare, le patologie, le disfunzioni del sistema e le sofferenze dei singoli diminuiscono poiché aumentano le possibilità di cambiamento, di evoluzione, di innovazione personale e relazionale. In questo caso anche professionale”».
Quel libro è un “diversamente libro”. Oltre infatti ad essere collettivo, è anche corale. Gli articoli di ciascuno sono completati dalle note degli altri, secondo un meccanismo reciprocamente integrativo che arricchisce ogni contributo. Ho quindi lasciato, in questa lunga citazione, anche la nota di Onorina Gardella che mi sembra assai significativa.
Oggi si parla di “area unica del sostegno” nelle superiori [il riferimento è alla proposta di legge elaborata alcuni mesi fa da una serie di associazioni di persone con disabilità e delle loro famiglie, basata appunto sull’istituzione di un’area unica per insegnanti di sostegno di scuola superiore e sull’eventuale creazione di una classe di concorso specifica per il sostegno stesso, N.d.R.].
Si tratta di una proposta che ancora una volta va nella direzione del soddisfacimento di esigenze che hanno a che fare con la gestione del personale, con l’attribuzione ad esso di maggiore duttilità, senza che sia garantita alcuna preparazione culturale sufficiente e che allarga all’intero sostegno delle superiori il problema dell’area tecnica, area troppo variegata che va dall’informatica al diritto.
Si consideri il fatto che molto spesso accade che gli insegnanti di sostegno non sono specializzati. Sarebbe come mandare me – insegnante di matematica applicata e informatica – a insegnare italiano. È una cosa teoricamente possibile anche sulle materie. Succede spesso in area tecnica (meccanica ed elettrotecnica) che vengano insegnate anche da non aventi titolo di aree limitrofe. Allorquando un Dirigente Scolastico non trovasse un insegnante della materia, dopo avere scandagliato le Graduatorie d’Istituto, quelle degli istituti vicini, eventuali curricula volanti, eventuali laureandi et similia, non trovando nessuno, potrebbe prendere il primo che passa.
Nel caso del sostegno, tuttavia, abbiamo “ricchi giacimenti” di docenti specializzati che oggi insegnano la propria materia. Come mai questo avviene? Perché non sono possibili cattedre miste: materia/sostegno. Dovendo scegliere, dopo cinque-dieci anni di precariato, gran parte del quale sul sostegno, e cinque anni di ruolo sul sostegno, una buona parte degli insegnanti preferisce passare sulla materia.
E vengo infine a una proposta. Immaginiamo, invece, di istituire queste cattedre miste. Ogni anno, in ciascuna scuola, si valutano il numero di ore di sostegno necessarie, la composizione dei consigli di classe, la presenza di insegnanti specializzati nei consigli di classe medesimi, l’opportunità di allocarli sul sostegno in materie di area (anche in funzione del curriculum informale dell’insegnante medesimo; ad esempio chi scrive è presidente della Lega Italiana per la Difesa del Congiuntivo e appassionato di Storia del Cinquecento, e anche se sono ingegnere, potrei essere di grande aiuto in una seconda media; parimenti ho un collega laureato in lettere che è un provetto programmatore e che di certo potrebbe essere di grande aiuto nelle ore di informatica).
Alla fine di questo percorso, invece di chiamare insegnanti precari per il sostegno (si legga delle gravi distorsioni sul tema dell’organico di diritto e di fatto in questo campo), se ne chiamerebbero una parte residuale e molti invece verrebbero chiamati sulla materia. Beninteso, immagino una graduale riduzione del divario tra organico di diritto e di fatto, ma la cattedra mista garantirebbe insegnanti di sostegno radicati nella scuola, autorevoli ed esperti, conoscitori del contesto, dei colleghi, dell’ambiente che, affiancati da colleghi più giovani sulla materia, non correrebbero il rischio di vestire un ruolo ancillare.
Paolo Fasce
Risponde Salvatore Nocera, vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
Rispondo con piacere a questa riflessione di Paolo Fasce, precisando innanzitutto che inizialmente, per quanto mi riguarda, non ero favorevole alla classe unica di concorso per il sostegno, ma lunghe discussioni con pedagogisti mi hanno portato ad accettarla come un “male minore” rispetto all’attuale situazione in cui sono troppi i docenti che accedono al sostegno per motivi ben diversi da quelli legati alla vocazione didattica. Sono invece stato sempre contrario alle aree disciplinari per le superiori, invenzione dovuta a una cattiva interpretazione ministeriale dell’articolo 13, comma 5 della Legge 104/92 [«Nella scuola secondaria di primo e secondo grado sono garantite attività didattiche di sostegno, con priorità per le iniziative sperimentali di cui al comma 1, lettera e), realizzate con docenti di sostegno specializzati, nelle aree disciplinari individuate sulla base del profilo dinamico-funzionale e del conseguente piano educativo individualizzato», N.d.R.] e la riprova di ciò si ha nel fatto che in talune aree sono comprese materie tra loro lontanissime.
Sono altresì contrario a cattedre miste sostegno-disciplina curricolare, sia per motivi organizzativi sia perché sono convinto che il docente per il sostegno sia figura diversa da quella curricolare e che la sua funzione programmatoria e valutativa sia diversa da quella dei colleghi curricolari. Infatti, l’inclusione scolastica – contrariamente a quanto è venuto determinandosi in questi ultimi decenni – era inizialmente (e dovrebbe esserlo anche oggi) compito fondamentale e primario dei docenti curricolari.
Dapprincipio, sino alla Legge 517/77, non esistevano docenti per il sostegno e il lavoro inclusivo veniva svolto dai soli docenti curricolari; poi, però, ci si è resi conto che era necessaria la presenza di un docente che conoscesse le problematiche apprenditive degli alunni con diverse disabilità e le didattiche e le strategie da adottarsi per ciascuno di essi. La logica dell’introduzione di questa nuova figura è stata quindi quella di un docente che fosse fondamentalmente “di sostegno” ai colleghi curricolari, per facilitare l’inclusione, e che fosse “di sostegno” all’alunno solo per alcune specificità, ad esempio l’insegnamento del Braille per le persone con minorazione visiva ecc.
Purtroppo, con l’andar del tempo e con l’aumento sconsiderato del numero di alunni per classe, oltreché con la riduzione inarrestabile dell’aggiornamento dei docenti curricolari sull’inclusione, si è determinata una delega quasi totale ai soli docenti per il sostegno da parte degli insegnanti curricolari. E a testimoniarlo palesemente vi è l’incessante richiesta di ore di sostegno, anche tramite migliaia di sentenze dei Tribunali Amministrativi Regionali (TAR), e l’affidamento, da parte dei docenti curricolari, anche della didattica delle singole discipline, ai colleghi per il sostegno.
Un po’ di chiarezza ha cercato di farla il Decreto del Presidente della Repubblica (DPR) 122/09 sulla valutazione degli alunni, provvedimento che nei suoi primi articoli precisa come i docenti per il sostegno debbano valutare se siano stati raggiunti (e in quale misura) gli obiettivi inclusivi da parte di ciascun alunno con disabilità e dei suoi compagni, obiettivi indicati nell’articolo 12, comma 3 della Legge 104/92, espressamente richiamato. L’articolo 9 dello stesso DPR 122/09 detta poi le norme per la valutazione degli apprendimenti, che è opera fondamentale dei docenti curricolari, aiutati dai colleghi per il sostegno, i quali non debbono sostituirsi ad essi, dovendosi limitare solo a fornire consulenze.
Oggi, invece, si assiste troppo spesso a docenti curricolari che chiedono al collega per il sostegno di indicare lui quale valutazione dare all’alunno con disabilità sulle singole discipline; e tutto ciò è la totale negazione dell’integrazione scolastica, almeno come l’ho vissuta io da minorato visivo negli Anni Cinquanta e come – assieme ai sostenitori dell’inclusione – abbiamo voluto fin dall’inizio, nei tardi Anni Sessanta e nei decenni successivi, contribuendo alla produzione normativa in tal senso.
Questa è stata la mia esperienza di studente e di docente di diritto negli Istituti Tecnici-Commerciali e, come consulente del Ministero, a partire dalla metà degli Anni Ottanta.
Se dunque la maggioranza dei docenti italiani vuole cambiare questi orientamenti e queste prassi, sono liberi di farlo, ma in tal caso non mi si parli più dell’esperienza italiana di inclusione scolastica; essa, infatti, diverrà un’altra cosa, perfettamente legittima, in uno Stato democratico, se il Legislatore lo vorrà, ma pedagogicamente da ritenere come una vera e propria “mutazione genetica”.